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Perché Aldo Moro doveva morire

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Nell’ambito della rassegna “Cassino offo”, curata dal critico  Francesca De Santis, ha esordito, nei giorni scorsi  “moro” (scritto così, con la m minuscola) di Ulderico Pesce e Ferdinando Imposimato, coraggioso e determinato esempio di teatralità mirata all’indagine civile.    Esplicita la data del debutto,  quella del 16 marzo, giorno del rapimento di Aldo Moro, avvenuto  nel 1978. Lo spettacolo parte da un interrogativo degno della migliore detection: chi  ha ‘veramente’ ucciso? E Ulderico Pesce, fra i maggiori esponenti italiani del teatro-inchiesta, dà una risposta secca “Le  Brigate Rosse fecero da paravento:  Moro e i ragazzi della scorta  furono uccisi dallo Stato.”

Frase che diventa  fulcro dell’azione scenica, documentata –a sua volta- dalle deduzioni del giudice   Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro e  che nello spettacolo appare in video interagendo con il protagonista.

Pesce, perché la  ‘m’  impersonale,non maiuscola?
“La lettera  minuscola  tende a sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo morire. Come se la  fine, quella fine di Aldo Moro fosse necessaria per bloccare energie politiche alternative a quelle in auge e per lasciare spazio alle carriere di alcuni suoi colleghi”

Moro, aprendosi alla collaborazione della  sinistra di Berlinguer, nutriva brutti presentimenti…
 “Moro sente che  in tanti  vogliono la sua morte e lo scrive in una delle ultime lettere che fanno da leit motiv dello spettacolo: Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese. Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno voluto veramente bene e sono degni di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.

Quale struttura narrativa avete individuato per la rappresentazione? Ricordo, anni fa, un monologo di Paolo Bonacelli tutto incentrato sulla dimensione carceraria, segregativa di Aldo Moro nei lunghi giorni del sequestro…
 “Il nostro racconto è il più lineare possibile: a partire  dal rapimento di Moro e dalla uccisione   degli  uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi.    Raffaele Iozzino, unico membro della scorta che prima di morire riuscì a sparare due colpi di pistola contro i terroristi, era di Casola, in provincia di Napoli e proveniva da una famiglia di contadini. Raffaele, alla Cresima, aveva avuto in regalo dal fratello Ciro un orologio con il cinturino in metallo. Ciro, quella mattina del 16 marzo era a casa e casualmente in televisione vide l’immagine di un lenzuolo bianco che copriva un corpo morto. Spuntava da sotto al lenzuolo soltanto il braccio con l’orologio della Cresima. Questa è l’immagine emblematica che ricorre più volte nelle video proiezioni, questa immagine è la radice prima del dolore di Ciro, protagonista dello spettacolo. Questo dolore diventa rabbia, e questa rabbia lo spinge a rintracciare il giudice Imposimato titolare del processo al quale chiede di sapere la verità. Sarà il rapporto tra Ciro e il giudice, strutturato su questo forte desiderio di verità, a rendere palese che ad uccidere Moro e i giovani membri della scorta furono i più alti esponenti dello Stato italiano con la collaborazione dei Servizi segreti americani”

Se ne deduce che  sia Ciro il personaggio più ostinato e testardo di tutta l’oscura vicenda?
“Si e  questa sua fermezza lo condurrà  di fronte a molte ‘stranezze’ -portate avanti da statisti come Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. Tra le  singolarità  scoperte e denunciate da Ciro Iozzino  lo spettacolo ne sottolinea  alcune: in genere un’ora dopo il rapimento di una persona le indagini vanno  assegnate, come stabilito dal  codice di procedura penale, al giudice istruttore- che a Roma, il giorno della strage, era appunto Ferdinando Imposimato.   Invece le indagini  rimangono nelle mani della Procura della Repubblica di Roma che le affida al giudice Imposimato solo il 18 maggio 1978 quando Aldo Moro è già stato ucciso da nove giorni”

Altre singolarità?
“Lo spettacolo le denuncia una per una.  Ascolti:  Il 31 gennaio del 1978, circa due mesi prima del rapimento Moro, nasce l’Ucigos, un organismo di polizia speciale che va a lavorare alle dipendenze del Ministro dell’Interno che all’epoca era Francesco Cossiga. La famiglia di Iozzino non si spiega come mai nasca una squadra speciale di polizia investigativa senza l’autonomia che la Costituzione gli affida perché alle strette dipendenze di un ministero”

E l’antiterrorismo, nel frattempo….
“Qualche mese prima della strage di via Fani accade una cosa ancora più inspiegabile:  viene smantellato l’Ispettorato antiterrorismo diretto da Santillo che aveva raggiunto risultati eccellenti contro i terroristi e contro la Loggia Massonica P2. Fatto fuori Santillo e la sua  squadra,  a indagare sul terrorismo, prima del rapimento di Moro, rimaneva solo l’Ucigos, che era alle strette dipendenze del  solito ministro Cossiga. Altra  bizzarria di cui lo spettacolo rende conto : uomini dell’ Ucigos, ad agosto del 1978, erano già stati in via Montalcini nella prigione di Moro. Secondo alcuni documenti in possesso del giudice Imposimato è probabile che gli stessi uomini  sapessero della prigione di via Montalcini mentre Moro era ancora vivo. Perché gli  inquirenti che interrogano alcuni inquilini dello stabile dove è prigioniero Moro, non lo comunicano al giudice Imposimato? Ma la denuncia più consistente che Ciro Iozzino fa nello spettacolo riguarda le rivelazioni di tale Mr. Pieczenik, un esperto di terrorismo mandato segretamente in Italia dal governo americano  per la gestione del caso Moro.

Quali rivelazioni?
“Pieczenik  rivela ad Imposimato : quando Moro ha fatto capire attraverso le sue lettere che era sul punto di rivelare dei segreti di Stato e di fare i nomi di coloro che quei segreti detenevano… in quel momento s’è come  aperto  un bivio: se Moro potesse continuare a vivere o dovesse morire con le sue rivelazioni. La decisione di far uccidere Moro non è stata una decisione presa alla leggera. La decisione finale è stata di Cossiga, e presumo anche di Andreotti:   egli  doveva morire.”


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