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Conclave, un dubbio “blasfemo”

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Mentre sottili esperti di diritto ecclesiastico continuano a discutere sul significato della compresenza di due Papi, di un Papa che non è più Papa, ma è vivo e presente, mentre dissertano con distinzioni che fanno impallidire anche un veneziano come me che nel bizantinismo è nato e cresciuto; mentre l’ opinione pubblica segue la “gara”  dei pronostici su chi sarà il nuovo Papa, forse vale la pena di approfondire quello che è successo in queste poche settimane, quello che abbiamo potuto vedere dal giorno delle dimissioni di Benedetto XVI quando i fatti, e quello che è successo, hanno messo a nudo una situazione che si sapeva critica nella Curia, ma non così gravemente nell’ intera Chiesa.

I Cardinali, i principi della Chiesa, i massimi esponenti di una comunità ecclesiale radicata in tutti e cinque i continenti, sono poco più di un centinaio e tuttavia durante questi giorni si è scoperto che la gran parte di loro non si conoscevano, non avevano mai avuto contatti prima dei giorni seguiti alle dimissioni del Sommo Pontefice. Ma si può governare una comunità di fede senza che i principali esponenti si incontrino, discutano, capiscano dalla voce dei protagonisti  come la fede si incarna in paesi così distanti (socialmente, economicamente, culturalmente, per diversità di tradizioni e di problematiche). La Chiesa è, o dovrebbe essere, il luogo dove il Verbo che si fa carne viene annunciato a uomini che hanno culture, storie, problemi tra loro molto diversi, che credono nello stesso Dio, ma che si trovano a confrontare il Credo con storie, situazioni sociali, identità che vivono in un mondo certamente globalizzato, ma anche frammentato, profondamente diverso per storie, linguaggi comprensione dei simboli che vengono espressi e scambiati.

Un esempio per tutti: Dio è luce è un’ immagine di grande forza, ma certamente è stata vissuta  in modo diverso dall’ uomo del medioevo che dal buio era  terrorizzato, mentre  molto meno significativa per chi vive a New York, percorre le vie abbaglianti di Manhattan. Certo Dio è una luce spirituale, una luce che da senso alla vita. Ma la comprensione immediata dell’ immagine è molto diversa tra chi vive nella foresta e chi vive nella città moderna.

Annunciare la fede vuol anche dire elaborare simboli. Il valore dei simboli cambia nel tempo. Ha scritto Bachtin: “La forma e il contenuto fanno un tutt’ uno nella parola intesa come fenomeno sociale.” Il problema che si pone alla Chiesa è proprio questo. L’ annuncio che Dio è venuto; si è incarnato, è stato crocefisso, è risorto,  chiama alla Ressurezione, per i credenti chiededi non andare  perduto come il grano che cade sulla pietra. L’ annuncio  deve trovare la possibilità di diventare un seme cresce nella terra, che si misura con il trascorrere delle stagioni, che trova un terreno sociale che è in grado di accoglierlo e di farlo germogliare.

Si può pensare di evangelizzare una moltitudine di persone, di storie, di provenienze parlando un’ unica lingua, con l’ esile voce di un’ unico insegnamento sia pure “luminoso”, come è stato felicemente definito da Sandro Magister, il magistero di Papa Ratzinger? Il problema della Curia, oggi sottoposto a severa e giustificata discussione non nasce anche dall’ illusione di ridurre il mondo a un suono monofonico. Non è il caso di articolare e rendere rispondente questo organismo burocratico alla molteplicità creativa, spesso conflittuale, ma anche molto caratterizzata del mondo moderno. Può bastare il governo, l’ unica tonalità di una sola persona o di un Segretario di Stato?

Un dubbio blasfemo? Certo. Per chi non ha letto ciò che dicono con straordinaria forza immaginifica e, allo stesso tempo, sostanziale gli Atti degli Apostoli: “Venuto poi il giorno di Pentecoste si trovarono tutti insieme nel medesimo luogo. All’ improvviso scese dal cielo un suono come di vento che soffia impetuoso. Riempì tutta la casa che dove erano seduti . . . tutti furono ripieni di Spirito Santo e incominciarano a parlare lingue diverse secondo che lo Spirito Santo dava ad essi di esprimersi”. E ancora, recitano gli Atti: “All’ udire quel suono si radunò la moltitudine  e rimase confusa perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua. E tutti stupiti e meravigliati, andavano dicendo: come mai noi li sentiamo parlare ciascuno la nostra lingua?”.

Certo una molteplicità di linguaggi senza un disegno che li contenga rischia l’ autodistruzione, l’ illusione onnipotente di costruire come a Babele una torre che non riesce a salire, ad alzarsi verso il cielo. Ma anche non dare spazio alla molteplicità delle lingue, non permettere loro di incontrarsi, non permettere loro di esprimersi nella loro collegialità può portare al rischio di una Babele rovesciata dove dietro l’ apparente unaniminità “teologica” c’ è una molteplicità di lingue destinate a non incontrarsi a dare un contributo articolato alla comune costruzione della Casa del Padre.

Ciò che abbiamo visto in questi giorni nelle congregazioni, negli incontri tra i Cardinali che hanno preceduto l’ ingresso nel Conclave è stata l’ immagine di una chiesa povera di spiritualità e di carisma, incapace di riflessione, di analizzare la complessità della società contemporanea, delle lingue che, questa società parla, spesso nel dolore e nella sofferenza, a volte anche nella tragedia. Quello che si è visto è stato uno scontro tra centri di potere. E’ legittimo chiedersi se la volontà della Curia romana, quella  di ridurre la molteplicità all’ unicità di una sola voce non sia anche un peccato contro la generosità dello Spirito Santo che dà agli apostoli la possibilità di “annunciare la grandezza di Dio” nelle lingue e nelle culture di ciascun popolo.

Questo è il periodo in cui si dovrebbero  celebrare i cinquant’ anni del Concilio Vaticano II che aveva capito che ciò che dava unità alla Chiesa non era la solitudine di una sola voce, ma la possibilità di popoli diversi di incontrarsi, di discutere, di cercare, di penetrare in profondità la verità. Certo con un punto di riferimento saldo, il Santo Padre, ma un Santo Padre che vive all’ interno di un comunità reale, liberato da una Curiaglaucoma, che ne restringe la visuale, lo allontana dai doni che lo Spirito Santo ha diffuso nelle diverse lingue, nelle diverse storie, nelle diverse culture.

Per aver provocato questo confronto, questa molteplicità di espressioni, dei pseudo tradizionalisti settari (in realtà fin dalle origini la Chiesa per affrontare problemi ardui e complessi convocava sinodi e concili), hanno visto il Vaticano II come la rovina della chiesa, la perdita della sua identità. Anche qui gli Atti degli Apostoli hanno parole che non possono essere ignorate: “Erano tutti stupiti e, non sapendo cosa pensare, si chiedevano l’ un l’ altro: ‘Che cosa significa tutto questo?’. Ma altri invece li sbeffeggiavano, dicendo: ‘Sono pieni di vino nuovo”.

Se c’ è una cosa di cui oggi ha bisogno la Chiesa è proprio quella di non chiudersi in una parola o in una figura autoritaria, che non ammette repliche. Una monofonia non è un segno di unità, è un segno di povertà. La Chiesa posta di fronte a problemi gravi e difficili, alla sua propria crisi, non deve avere paura del vino nuovo, che fa parte della vita, e deve avere il coraggio di chiedersi: cosa significa tutto questo?


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