Proprio alla vigilia dell’8 Marzo, data simbolica per celebrare i diritti universali delle donne, la censura diFacebooksi è abbattuta come una mannaia su di un’opera artistica, di scultorea e delicata bellezza femminile, “Etude de Nu” (foto realizzata nel 1940 dalla grande fotografa francese Laure Albin Guillot), “postata” sul social network del museo Jeu de Paume, che ha allestito a Parigi un’importantissima retrospettiva “Laure Albin Guillot (1879 – 1962), l’enjeu classique” (fino al 12 Maggio 2013). E così più importante museo francese dedicato interamente all’arte fotografica, da sempre particolarmente sensibile alla divulgazione di quella declinata al femminile, si è trovato nell’assurda situazione di doversi difendere dall’accusa di “immoralità”. La direttrice, Marta Gili, ha dovuto oscurare il seno nudo della foto, perché, secondoFacebook, questa era contraria alle norme contenute nel documento sugli “Standard della comunicazione”, elaborato dalla società di Palo Alto del multimiliardario Zuckerberg. Un atto unilaterale “censorio” che accomuna un’opera d’arte, come la foto in questione, ad un’immagine pornografica. Non è la prima volta che capita un episodio del genere contro la paginaFacebookdel Jeu de Paume: era già successo con altre due foto di nudi femminili di altrettanti maestri mondiali, come il francese Willy Ronis e il messicano Alvarez Bravo. Ed era scattata una sorta di diffida contro il museo ad utilizzareFacebook, se avesse di nuovo fatto ricorso a immagini del genere, seppure artistiche.
Uno strano accanimento censorio contro “la nuova arte”, quella della fotografia, inspiegabile, tanto che la direttrice Marta Gili si è detta intenzionata a “non pubblicare più dei nudi, anche se pensiamo che il loro valore artistico è grande e che queste foto, per nulla pornografiche, rispettano il “Diritto di pubblicare contenuti di natura personale”. Non è autocensura, ma saremo costretti a descrivere le foto dei nudi, anziché farle vedere”. E questo sarà ancor più “scioccante”. Il museo non ha mai avuto contatti diretti conFacebook. Sorge quindi il sospetto di una “operazione stupidamente orchestrata”. Spiega la direttrice: “su queste grandi Reti,Facebook, Twitter, ci sono degli strumenti di controllo sconosciuti che fanno paura. Ora se la prendono contro una mostra, ma un giorno potrebbe estendersi ai siti politici e della società civile: che si farà allora?”.
Secondo Marta Gili, inoltre, “dietro a tutto questo, c’è un fondamentalismo obsoleto, una sorta di radicalismo religioso, contrario al nudo e soprattutto a quello delle donne. E comunque, ancora una volta, è con il corpo delle donne che si hanno dei problemi”. Il rettangolo nero, a lutto, che copre il nudo, ha avuto sicuramente, però, un effetto dirompente e involontariamente ha prodotto un messaggio pubblicitario presso l’opinione pubblica, stimolandola a visitare l’expo.
Una cosa analoga era già successa a Dicembre del 2010 con la singolare misura restrittiva, che aprì un dibattito lacerante, di vietare ai minori di 18 anni la visita alla mostra del Musée d’Art Moderne sul fotografo americano Larry Clark, faro della contro-cultura, da sempre al centro delle polemiche per le sue immagini di crudo realismo, che hanno messo a nudo l’immaginario di un’America “puritana e innocente” degli anni ‘60 e ‘70. Commentò allora l’artista: ”una maniera di scioccare e ferire gli adolescenti, un insulto alla loro intelligenza, alla loro libertà e capacità di giudicare. Era forse più opportuno interdirla agli adulti e a tutti coloro che posano uno sguardo pornografico sulla gioventù e la sessualità”. Un puritanesimo punitivo, che ancora una volta ha colpito non distinguendo fra oltraggio al pudore e arte. E che ha tentato di ricondurre nella clandestinità e nella subalternità una voce elevata di arte femminile, che ha rappresentato la nudità del corpo con delicatezza e purezza di sentimenti, ben lontana dal voyeurismo e da un’idea oggettivata, strumentale, veicolo di merce, che da sempre si fa del corpo delle donne.
Emblematica, pertanto, la vicenda di questi giorni. La fotografa Albin Guillot è stata un’artista straordinaria, che fra il 1920 e il ’40 ha disegnato il paesaggio artistico e definito il gusto estetico del Novecento, scrivendo un capitolo memorabile sulla storia della fotografia classica. Negli anni fra le due guerre aveva conquistato fama e celebrità e ricoperto anche importanti incarichi istituzionali. Fu direttrice degli Archivi fotografici delle Beaux Arts, futuro Ministero della Cultura, e della Cinématèque National e Presidente dell’ Union Féminine des Carrières Libérales et Commerciales. Negli anni più recenti, un silenzioso ed inspiegabile oblio l’aveva relegata in una ristretta nicchia di appassionati, interrotto ora da questa mostra che vuole riportarla all’attenzione di un più vasto pubblico internazionale. Colpisce nei suoi ritratti un’eleganza senza tempo, una plasticità armoniosa che si fonde attraverso luci soffuse e fluttuanti in un campo visivo ristretto, conferendo ai soggetti ripresi un effetto di interiorità e di intimità.
In un giorno come l’8 Marzo, mentre si dovrebbe mettere in luce e valorizzare il contributo alla cultura e all’arte « dell’altra metà del cielo », ci troviamo invece a fare queste riflessioni sull’uso della Rete. Siamo forse di fronte alla nascita di una sorta di “nuova democrazia globale della rete” oppure nel bel mezzo di un gioco di potere governato da interessi economici? Con il suo “The Net Delusion” (“L’ingenuità della Rete”, Codice Edizioni) il politologo e blogger bielorusso, ricercatore all’Università di Stanford, Evgeny Morozov due anni fa metteva in guardia la comunità intellettuale mondiale contro la “retorica di un’era dorata e salvifica del WEB”.
“Ci sono tutta una serie di miti su come funzionano le piattaforme online”, scrive, “Progetti come Wikipedia, Google e Facebook ci hanno insegnato, e anche condizionato, a pensare che funzionano in modo oggettivo, neutrale e del tutto evidente. Ovviamente non è vero: nessuno conosce tutte le regole che innescano il meccanismo Wikipedia. Lo stesso per Google: non sappiamo come funzionano i suoi algoritmi e loro hanno resistito a ogni sforzo di renderli esaminabili. Un altro esempio? Twitter. Tutti pensano che sia una piattaforma che permette a chiunque, dalla sua camera da letto, di essere altrettanto influente di un commentatore di grido a proposito del futuro della Rete. Ma anche questo è un mito: la maggior parte dei commentatori della Rete che si dicono ottimisti sul suo futuro compaiono nelle liste di “chi va seguito” (compilate dalla stessa azienda Twitter e che gli permettono di acquisire molti più follower di tutti noi). Dunque, cosa c’è di così democratico e orizzontale nell’ecosistema dei nuovi media? Molte delle piattaforme online usate per l’impegno politico funzionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e scrutare. La gente ha l’illusione di partecipare al processo politico, senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contano”.