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La scomparsa di Damiano Damiani, regista eclettico e fecondo

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Anche se sbiaditosi negli anni, il ricordo di Damiano Damiani, scomparso all’età di 91 anni, dopo invalidante e lunga malattia,  giunge come ineccepibile redde rationem  di un’intera esistenza dedita al cinema, alla sceneggiatura, alla valorizzazione di giovani colleghi e attori in erba (lo furono, sotto la sua guida, anche Michele Placido, Franco Nero, Ornella Muti).

Eclettico, infaticabile, profondo conoscitore del “mezzo” cinematografico-sia dal punto di vista tecnico, sia da quello espressivo, considerata la sua formazione pittorica all’Accademia di Brera- Damiano Damiani è stato e resta fra i registi versatili del nostro cinema “tout court”  . Un uomo colto, gentile, disponibile; e ugualmente schivo, disincantato, apertamente lontano da personalismi, memoriali, celebrazione di se stesso.

“A oltre ottant’anni- ci confidava  durante un viaggio verso sud – scopro che il cinema è un mondo fatuo, una professione indefinita. Da molto tempo preferisco dipingere”. Ed infatti più di una mostra ne ha onorato l’espressività turgida e visionaria. Quella che nel cinema cede il posto ad un’idea di realismo incisivo, incalzante, di aspra indignazione civile, come nel celeberrimo “Il giorno della civetta” (dal romanzo di Sciascia), e nei successivi “Io ho paura”, “L’istruttoria è chiusa:dimentichi”, “Pizza Connection”. Ma è palesemente riduttivo ricondurre o riconoscere il magnifico apporto fornito da Damiani al cinema del secondo novecento al solo versante dei film di emergenza  socio-politica (del resto penalizzati da un improprio confronto con l’opera di Elio Petri), di accuse paradigmatiche contro le connivenze fra interessi illeciti e avallo politico, di “mafiologia” irrorata di dinamismo western (a proposito: ne firmò uno, memorabile, “Quen sabe”? nel 1966, con Gian Maria Volontà e Kluas Kinski, sceneggiato da Franco Solinas).

 

La creatività, la curiosità, l’ispirazione di Damiano Damiani sono sempre state imprevedibili e ondivaghe-  suffragate da un linguaggio asciutto, diretto, privo di iperbole, contorsionismi, elucubrazioni d’autore. Ancor prima che Germi e Monicelli ci divertissero (amaramente) con le “zingarate” di “Amici miei” ,Damiani aveva affrontato le disillusioni dell’amicizia con “La rimpatriata”   del 1963, protagonista un Walter Chiari da lettere maiuscole.

In anni in cui la crisi d’identità e l’impossibilità di venir fuori da se stessi avevano il solo nome (encomiabile) di Antonioni, Damiani tira fuori il suo (misconosciuto) capolavoro,”Girolimoni, il mostro di Roma” (1972), protagonisti  Nino Manfredi e il quasi esordiente Gabriele Lavia, dove “crisi” e “impossibilità” (di pirandelliana ascendenza) hanno responsabilità storiche (il fascismo) e strazio tangibile  (il film si ispira ad un fatto di cronaca, messo a tacere dalla stampa di regime). E – alla ricerca di nuove storie cui dare forma e sapore – Damiani si imbatte nel gotico-fantastico  di “Strega  in amore”, da un romanzo di Carlo Fuentes, negli introspettivi e compiutamente letterari (nel difficile passaggio dalla pagina al film)”La noia” e “L’isola di Arturo”    (da Moravia e Elsa Morante), nel metafisico, ambizioso,  mai velleitario “Il sorriso del grande tentatore”.

E soprattutto  nella elaborazione  del dubbio  evangelico de ”L’inchiesta” (sobrio film cristologico, in costume giudaico, che  è ancora antidoto al pleonastico splatter di “Passion” di Gibson) e  nell’acido della commedia di caratteri   e  “amichevoli” tradimenti  (desunti  da un suo testo teatrale, protagonista Giorgio  Albertazzi) che intravediamo in “Gioco al massacro” con Elliot Gould, Tomas Milian e una giovanissima (bellissima) Nathalie Baye, dove l’ambizione “metalinguistica” del soggetto, pur se parzialmente suffragata dagli esiti espositivi, è tutta amministrata all’interno di quelle dinamiche di rapacità, invidia, tornaconto che inquinano i rapporti fra “gente di cinema”, nonostante le pacche sulle spalle e le reciproche ipocrisie delle pubbliche apparizioni. Siamo o non siamo dalle parti di un antesignano malessere, di una angustiata riflessione che –qualche tempo dopo- sarà l’asse portante di tanto cinema di Pupi Avati?

Con qualche disagio possiamo anche aggiungere che, recensendo “Assassini del giorno di festa”   (ultimo film diretto da Damiani, distribuito nel 2001), esprimemmo  perplessità e delusione dinanzi ad un tentativo di “noir” picaresco che pur mette in berlina il mondo dello spettacolo (una combriccola di scalcagnati teatranti, in questo caso) e le sue paranoie di ripicca e latente isteria. Le caratterizzazioni (da Carmen Maura a Riccardo Reim) erano turgide e a tutto tondo, il disegno del regista –per usare un termine pittorico- molto incattivito e “a punta secca”. Ma il film perdeva di nerbo e di concentrazione dopo la prima mezz’ora, poiché (lo appresi  solo in seguito) portato a termine da Damiani, imperterrito professionista, all’inizio del suo fisico declino. Film  che segna comunque  il suo distacco morale, il suo non simulato rammarico nei confronti di un mondo, di un ambiente che avvertiva (ormai) distanti- e dai quali scelse di tenere  le debite distanze

Forse percependone molti  grammi di   ipocrisia e ingratitudine.


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