Non ce l’aspettavamo. Non così immediata, così diretta e chiara. Invece la risposta dalla Rai, della presidente Anna Maria Tarantola – una donna, aggiungo, non a caso – è arrivata a poche ore dalla pubblicazione dell’editoriale con il quale chiedevamo un format, in mancanza di spazi nei telegiornali e negli altri contenitori informativi del Servizio pubblico, per i diritti umani e le crisi dimenticate. Come Stefano Corradino, il nostro direttore, e l’inossidabile portavoce Beppe Giulietti, mi compiaccio della puntuale replica della presidente Tarantola e condivido l’aspettativa che il grande tema dei diritti umani e delle crisi dimenticate possa diventare uno degli argomenti qualificanti del servizio pubblico fino ad arrivare, nel tempo, alla costituzione di un vero e proprio osservatorio permanente capace di illuminare i mondi oscurati. Certo non sarà facile. E non è affatto scontato. Il nostro sistema giornalistico è condizionato da logiche che poco si conciliano con situazioni e realtà che fanno poca audience o che, quando va bene, trovano spazio nella colonna delle brevi perché, è il pensiero distorto di tanti colleghi, nessuno le leggerebbe. E’ per questo che sin da giovanissima, quando muovevo i primi passi in una piccola radio privata, ho sempre avuto come ideale il giornalismo anglosassone. Non certo per snobismo, ma perché non trovavo alternative valide. Negli Stati Uniti, come nel Regno Unito, da sempre i media svolgono un ruolo estremamente importante nella tutela dei diritti umani. Garantiscono visibilità a chi denuncia le violazioni a danno delle minoranze o delle fasce deboli e fungono da cassa di risonanza per tutte le voci, anche quelle indigeste ai poteri forti, affinché possano essere ascoltate. Anche quando i giornalisti sono consapevoli di rischiare sulla propria pelle, difficilmente si tirano indietro. Ho avuto la fortuna di conoscere colleghi che di fronte a situazioni di grande criticità e questioni off-limits non si sono arresi. Da loro ho imparato che bisogna avere la forza di denunciare le vessazioni e gli abusi che avvengono in qualsiasi luogo perché lasciare che essi rimangano nel silenzio e siano perpetrati impunemente è, come diceva Martin Luther King, una minaccia per la giustizia ovunque. Alcuni di questi non ci sono più. Colleghi incrociati un paio di volte, come Gilles Jacquier, fotoreporter di France 2 ucciso a gennaio dell’anno scorso in Siria. O che conoscevo bene come Tim Hetherington, con il quale condividevo la passione per il Darfur, massacrato da un colpo di mortaio a Misurata, in Libia, il 20 aprile del 2011. E proprio pensando a storie e persone come Tim, alla sua intensa e incondizionata capacità di raccontare le violazioni dei diritti umani, mi è sempre apparsa intollerabile l’indifferenza del mondo dell’informazione italiano. Oggi la presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, offre uno spiraglio che fa balenare in me la speranza che qualcosa possa cambiare. Davvero. Le poche righe della sua lettera segnano un percorso che, ci auguriamo, prosegua e porti a un cambiamento epocale. Certo, l’idea di un format o di un contenitore informativo ad hoc per i temi che non trovano collocazione nei tg era una provocazione. Ma l’input è chiaro. L’augurio, ora, è che grazie allo stimolo della nuova dirigenza possano cambiare le logiche e il sistema che, finora, hanno prodotto le storture dell’informazione che denunciamo da anni. Io ci credo. Voglio crederci. E sono certa che, essendo stavolta una donna a imprimere tempi e regole, la strada sarà più lineare e diretta.
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