C’è molto più di numeri e parole dietro il piano di Rcs Mediagroup presentato ai sindacati l’11 febbraio scorso. L’annuncio di esuberi per 800 dipendenti, della cessione o chiusura di dieci periodici e dei tagli alle redazioni di Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport…, con il trasferimento dalla storica e centralissima via Solferino alla periferica via Rizzoli, non riguarda solo una pur grande azienda e i suoi lavoratori, ma obbliga – finalmente – a riflettere sui destini dell’intero mondo dell’informazione italiana. Perché la crisi, profondissima, del primo gruppo editoriale italiano mostra, come un re nudo, problemi e contraddizioni, errori e ritardi, di tutta l’industria dei giornali.
È la punta dell’iceberg di un fenomeno di inesorabile trasformazione che arriva da lontano, che per oltre un decennio si è finto di non vedere invece di cavalcarlo, fin quando non si è sommato e moltiplicato con gli sconvolgimenti globali della finanza e dell’economia. Oltre a Rcs stanno del resto arrivando al pettine i nodi di altri grandi gruppi, su tutti la Mondadori, e quotidiani importanti come La Stampa, Avvenire, Corriere dello Sport e presto, si dice, anche Repubblica. E non a caso la Segreteria Fnsi incontrerà giovedì mattina a Milano i Cdr del gruppo Rcs e nel pomeriggio riunirà la Giunta federale proprio sui temi delle grandi crisi aziendali.
La situazione è divenuta insomma straordinaria, e straordinariamente urgente, e va affrontata con soluzioni non banali e con un impegno nuovo da parte di tutti gli attori in campo: i giornalisti e il loro Sindacato, gli editori e, soprattutto, la politica.
Il Piano. Le linee guida degli interventi triennali disegnati dall’ad Pietro Scott Jovane erano già noti dal 19 dicembre scorso, in un mix di riduzione dei costi e investimenti, focalizzazione sulle attività cosiddette core, alienazione dal resto e spinta accelerata verso la multimedialità, con obiettivi di recupero importante dei margini del business fino a un ebitda del 10% del fatturato a fine 2015 (rispetto al 4% attuale) e un quarto dei ricavi affidati al digitale.
L’11 febbraio sono stati aggiunti particolari operativi dirompenti e pesantissimi: i lavoratori coinvolti dal ridimensionamento degli organici sono in tutto 800, di cui 640 in Italia e 160 in Spagna (dove nel solo 2012 sono stati già espulsi 350 lavoratori), con un obiettivo di risparmio finale di 80 milioni di euro, mentre dieci sono le testate periodiche destinate alla cessione (o alla chiusura, in mancanza di compratori), insieme con gli asset immobiliari, compreso lo storico e prestigioso palazzo di via Solferino, occupato dal Corriere da oltre cento anni. I giornalisti coinvolti in Italia, tra quotidiani e periodici, si aggirerebbero a conti fatti intorno a quota 200, gli altri esuberi sono tra poligrafici e grafici editoriali, non si sa come suddivisi tra le varie aree e divisioni aziendali, che sarebbero comunque tutte interessate.
Sul fronte degli investimenti, in tutto pari a 180 milioni, c’è una specifica orientativa: 45 milioni all’informazione tradizionale su carta, 135 sul digitale, di cui due terzi destinati ai nuovi progetti, ma nulla di più è dato sapere al momento. Così come c’è ancora troppo silenzio sull’entità e le modalità dell’aumento di capitale richiesto agli azionisti e sulla rinegoziazione del debito da oltre 800 milioni che andrà in scadenza nei prossimi mesi.
Banche e finanza. Un Piano insomma, quello di Rcs, che appare più preoccupato di soddisfare e convincere azionisti e istituti di credito (spesso, in alcuni casi, coincidenti) che di tracciare il futuro del primo gruppo editoriale italiano. Il peso ingombrante della finanza sulle decisioni e sulle strategie delle aziende è del resto una delle ombre più scure sulla nostra informazione. Non è più solo una questione di bilanci chiusi in utile anche modesto, segno di salute dell’impresa. Avere un debito elevato significa infatti drenare risorse importanti per ripagare almeno gli interessi e i costi, e rinegoziare oggi esposizioni passate si tradurrà quasi certamente in un peggioramento delle condizioni. E questo nonostante le banche creditrici, nel caso di Rcs, siano direttamente o indirettamente coinvolte nell’azionariato. Mentre gli azionisti sembrano determinati a mettere sul tavolo una quota ridotta di aumento di capitale, appena 400 milioni, rispetto a un reale fabbisogno da 700-800 milioni.
Il risultato? Ancora una volta, i sacrifici vengono chiesti unicamente alla parte più facile da aggredire: i lavoratori. E non altrettanto ad azionisti e banche. Senza neppure mettere sul tavolo tutte le informazioni, finanziarie e non solo, necessarie per avviare ad armi pari le trattative sindacali.
Interventi urgenti. Certo, ogni caso è a sé. E ogni azienda, ogni gruppo, ogni giornale ha la sua storia, i suoi errori, le sue ricette per uscire dalle difficoltà. Ma il male è comune. Le vicende di Rcs, come in un paradigma, sono lì a dimostrarlo. Ritardi ed errori manageriali, sottovalutazioni e ricorso massiccio alla finanza e all’indebitamento, percorrono la gran parte dell’industria dell’informazione. Da soli, non se ne esce. Vale per la carta stampata, che appare la più profondamente colpita dalla crisi, ma pure per l’informazione tv e per l’emittenza privata locale, per le agenzie di stampa e perfino per la giovane editoria digitale.
Ecco perché la risposta non può che essere unica e condivisa, all’interno della categoria e nel Sindacato. Con grande responsabilità e pragmatismo. Cancellando divisioni e contrapposizioni. Da tempo, su questo punto, sembra che tutti siano (a parole) d’accordo. Salvo ricadere, a ogni occasione, nelle vecchie logiche di appartenenza e nelle posizioni ideologiche e di parte.
Non ce lo possiamo davvero più permettere. È urgente rilanciare un patto e un progetto unitari e chiari, per guardare senza più diffidenze alle trasformazioni tecnologiche e a un modo differente di fare giornalismo, coniugando il valore forte della solidarietà con il rigore anche etico del Sindacato, che deve tenere insieme e garantire tutti, chi è stato finora tutelato ma rischia oggi di perdere il posto di lavoro, i precari che hanno diritto a maggiori garanzie, economiche, sociali e contrattuali, e i giovani che devono avere la possibilità reale di entrare nel mondo del lavoro giornalistico. In gioco ci sono anche i destini di tutti gli Enti della categoria, dall’Inpgi alla Casagit al Fondo di previdenza complementare, che nel progetto di tenuta e di sviluppo della categoria non possono non essere coinvolti in prima persona.
Dagli editori bisogna pretendere un impegno altrettanto forte e responsabile per sedersi insieme intorno a un tavolo e cercare soluzioni condivise, anche all’interno del prossimo rinnovo contrattuale, per il superamento della crisi dell’industria e per il rilancio dell’occupazione, per esempio attraverso l’individuazione e la definizione di nuove figure professionali e innovative organizzazioni del lavoro, con diritti e tutele uniti a una giusta flessibilità. Ma servono pure, nelle singole aziende, investimenti concreti, e non solo tagli; progetti seri, manager capaci, azionisti lungimiranti, con obiettivi di lungo periodo e non condizionati dalla finanza di breve respiro.
È dalla politica, però, che devono arrivare le risposte più importanti. Il governo che verrà dovrà riconoscere il ruolo strategico, anche per la democrazia compiuta, di un settore che coinvolge diritti e libertà fondamentali. È indispensabile rimettere mano alle leggi di sistema, che in molti casi bloccano e strozzano l’informazione. E bisogna trovare risorse economiche per rilanciare il settore dei media e, insieme, sostenere un welfare di categoria capace di accompagnare i giornalisti fino alla fine di questa lunghissima crisi, anche con modifiche intelligenti agli ammortizzatori sociali esistenti, a cominciare da una revisione della legge 416 del 1981. Qualche idea è già stata lanciata, come la costituzione di un fondo attraverso la tassazione della pubblicità televisiva o il contributo delle fondazioni bancarie, che tra le loro prerogative hanno anche gli investimenti a fini culturali. Altre saranno elaborate e proposte da tutte le parti in campo. L’importante è che il confronto di giornalisti ed editori con il prossimo governo inizi in tempi rapidi, subito dopo la sua formazione.
Il tempo dei rinvii è finito.