Aveva proprio ragione Alessandro Dal Lago a sostenere, qualche giorno fa sul manifesto , che tagli e macellerie nei confronti dell’università sono il sintomo piuttosto fedele dell’approccio marginale e minore verso i saperi dei governi moderato-finanziari italiani. E non solo del berlusconismo. Quest’ultimo ha dato il colpo di grazia, preferendo alle agenzie formative la parte più bassa e “pornografica” della televisione generalista. L’ultimo assalto al Fondo unico dello spettacolo, ridotto ormai a 390 milioni di euro, è la stessa cosa. Si vede che al cosiddetto governo tecnico non interessa granché della tanto sbandierata Italia dei «tesori» culturali. Al contrario. Sembra che alla tecnocrazia economica il vasto dibattito europeo sull’Europa «creativa» e sul potenziale enorme in termini di sviluppo delle arti e dello spettacolo venga derubricato come un inutile «dopo lavoro». L’Opera di Parigi riceve da sola dallo stato almeno la metà di quanto con fatica riescono ad avere le quattordici Fondazioni lirico-sinfoniche italiane. E in epoca di crisi, a Berlino, si è investito proprio nei beni immateriali, in funzione anticiclica. Lo «sporco» ultimo taglio è figlio delle miserabili forbici lineari previsti dai decreti di Tremonti, con i loro risvolti ricattatori. Oltre al taglio secco è previsto, infatti, il «taglietto» aggiuntivo se intervengono altri fattori (art. 16, comma 3 del decreto legge 98 del 2011; art. 2, comma 1 del decreto legge 78 del 2010). E di imprevisti ce ne sono sempre. Per di più, nella legge di stabilità Ornaghi «a sua insaputa» si era visto decurtare il Mibac di ben 103,3 milioni di euro. Il Fus è dimezzato rispetto a pochi anni fa e il trend è a scendere. Chiudono cinema, teatri, sale di musica e di danza. Perché la cultura è considerata probabilmente una terra di «infedeli», un luogo di perdizione rispetto all’omologazione imposta dai mercati finanziari? Una società più arretrata ed incolta, meno cosciente serviva all’autoritarismo populista dal cavaliere di Arcore e ritorna utile alle «élites senza popolo» che guidano oggi l’Italia. Chissà, speriamo di sbagliarci. E allora si ripristini il Fus, per evitare che il lavoro intellettuale diventi come il sottoproletariato descritto da Marx. Eppure lo sviluppo possibile e sostenibile si può poggiare proprio sulla società della conoscenza, oltre che sulla «green economy». La cultura non è una spesa, bensì un investimento. Diverse università hanno chiarito che un euro immesso nell’attività culturale produce un ritorno di cinque-sette volte superiore. La stessa Unione europea ha previsto sul tema un progetto quadro 2014-2020 del valore di 1,8 miliardi, pochini ma meglio del nulla italiano. Tra l’altro, si taglia il Fus e non si fa l’asta delle frequenze televisive digitali. Come mai? Sarebbe stata un’entrata certa, utile per alleviare le sofferenze dei settori più colpiti dalla scure governativa. Si sono infuriate un po’ tutte le categorie dello spettacolo a fronte delle ultime decisioni recessive. È il momento di ricostruire un vasto movimento culturale che rimetta al centro dell’«Agenda» la straordinaria questione dei saperi. Senza contenuti adeguati la rivoluzione digitale si rivelerà una bufala o, al meglio, un sogno. Del resto la cultura, anche se non piace a certa politica, è sempre più politica, all’ennesima potenza.