Raramente mi sono imbattuto in una donna più dolce, coraggiosa, appassionata e combattiva di Laura Santi. Laura ha quarantanove anni ed è affetta da una forma di sclerosi multipla che, purtroppo, non le lascia scampo. Di recente, ha ottenuto l’autorizzazione a porre fine ai suoi giorni quando lo riterrà opportuno. Eppure, nonostante il suo inferno fatto di routine, dolore, sofferenza e giornate che si ripetono quasi tutte uguali, ha deciso di dare un senso a questo dolore, trasformando la sua malattia in una lotta collettiva per un Paese migliore. Non aggiungo altro: qualunque parola aggiuntiva suonerebbe retorica. E Laura, da brava toscana, mira all’essenziale, con una grinta e una passione civile di fronte alla quale non possiamo far altro che toglierci il cappello.
Quando hai scoperto di essere affetta della sclerosi multipla?
Ho scoperto di avere le sclerosi multipla a venticinque anni, nel 2000. A gennaio ne compirò cinquanta. Un banale disturbo all’occhio e un’infiammazione del nervo ottico, neurite ottica, mi ha portato in ospedale. Non vedevo nulla dall’occhio destro e lì per lì pensavo di avere un disturbo oculistico, temendo di dover mettere gli occhiali con l’ansia della bella ragazza narcisista che ero. I medici mi guardarono preoccupati e alla fine mi dissero che il disturbo non era oculistico ma neurologico. Feci la risonanza magnetica e la puntura lombare, ricevendo un colpo tremendo, destabilizzante: sia per me che per la mia famiglia e per il mio fidanzato di allora, in un’epoca nella quale eravamo anche piuttosto disinformati in merito.
Cosa è cambiato, progressivamente, nella tua vita?
Devo dire che ho vissuto tantissimi anni libera, conducendo una vita quasi serena, viaggiando e lavorando. I segnali inizialmente sono stati normali: una pipì urgente, una piccola vertigine, una perdita d’equilibrio, una fatica anomala, salvo poi subire la degenerazione di una malattia estremamente prepotente e destabilizzante. Diciamo che quindici anni dopo la malattia mi ha travolto, segnando la mia vita in maniera definitiva e mangiandosi sempre più spazio per via della sua progressività che rende ogni giorno maledettamente frustrante, dato che le terapie riabilitative non bastano più a farmi provare un minimo di benessere.
Ora che hai ottenuto la possibilità di porre fine ai tuoi giorni quando lo riterrai opportuno, che valore dai alla vita?
Non sono credente: per me la vita è una, dunque le do lo stesso identico valore di prima. Le do un valore immenso. Certo, la nostra vita di malati gravi è ben diversa rispetto a quella di chi non ha questi problemi. Vivo in equilibrio fra la vita e la morte, aggrappandomi ai piccoli scampoli di esistenza che la mia quotidianità feroce mi riserva. Con questo pezzo di carta in mano, mi sento affacciata a un parapetto: ogni tanto guardo giù, animata dal desiderio di vivere il tempo che mi resta nel miglior modo possibile.
Qual è la prima cosa cui pensi quando ti svegli la mattina?
“Ahimè, devo svogliarmi e cominciare la routine! Chi mi cateterizza, chi mi solleva, chi mi porta in bagno, chi mi pulisce, chi mi imbocca, chi mi manovra, chi mi lava i denti”. La mia giornata è una routine feroce.
Hai ancora qualche sogno, qualche speranza, qualche illusione?
Non ho più speranze di curare la malattia o che non peggiori troppo. Purtroppo, sono in una fase senza scampo. Ribadisco: ciò che voglio fare è vivere al meglio il tempo che mi resta, non peggiorare troppo, non avere dolori, non avere sofferenze. Una speranza pubblica, invece, ce l’ho: che in Italia si cominci a parlare seriamente di una legge buona e adeguata sul fine vita, senza oscurantismo né indifferenza.
Cosa ti auguri per il futuro della ricerca e del Paese?
Mi auguro che ci siano più risorse destinate e senza condizionamenti di alcuna natura, a cominciare da quelle ecclesiastici, che non dovrebbero esistere. Peccato che l’andazzo sia un altro. In Italia le maglie della ricerca vengono ristrette ogni giorno di più, quando invece essa cambia in meglio la vita delle persone. Anche per questo, mi auguro di cuore che, nonostante tutto, possa esserci più empatia, che non ci si volti più dall’altra parte, che ci sia attenzione alla fragilità, alle minoranze e una forte contezza delle nostre origini. La classe dirigente non deve far finta di niente perché i problemi sono enormi, anche per chi versa in condizioni decisamente migliori delle mie.
Che messaggio vuoi lanciare a chi scopre di essere affetto dalla tua stessa malattia?
Ragazzi, fiducia! Non tutte le forme sono così e la vostra storia può avere un finale davvero diverso. E ancora: credete nella ricerca e battetevi per i vostri diritti, per la libertà della persona, non solo quella di porre fine alle proprie sofferenze ma, più che mai, di vivere la propria vita senza far del male a nessuno. Non siate indifferenti ai diritti perché essi cambiano la vita delle persone, non altro.
È innegabile che la malattia ti abbia tolto moltissimo. C’è qualcosa che ti ha anche regalato o, comunque, insegnato?
Regali non me ne ha fatti. Mi ha tolto quasi tutto. Vivo, come detto, in una routine meccanica fatta di enorme sofferenza. Tuttavia, mi ha fornito uno sguardo in più: anziché andare al mare, vedo una rosa nel giardino del vialetto di casa del vicino, che è la mia unica passeggiata, ed è già bellezza. Mi ha insegnato a volere delle piccolissime cose, a volare alto sulle cazzate, a farmi meno pippe mentali e a ristabilire l’ordine delle priorità della vita. Non è che prima fossi superficiale, ma la malattia mi ha svincolato dagli obblighi sociali, dalle convenzioni, dal dover essere, dal dover apparire, riportandomi all’essenziale. E non è poco.