“La stanza accanto”, di Pedro Almodovar, Spa, 2024. Con Tilda Swinton, Julianne Moore, John Turturro.
Gronda di amore per la vita l’ultimo film di Almodovar, e la sua messinscena della volontà di una donna di morire serenamente, senza lasciarsi distruggere e annullare dalle sofferenze del cancro, ne è proprio la testimonianza estrema. Martha (Tilda Swinton) è affetta da un tumore alla cervice e sceglie l’antica amica ritrovata Ingrid (Julianne Moore) perchè le stia accanto nel momento in cui deciderà di assumere la pillola letale, acquistata nel dark web, che la solleverà, definitivamente, da ogni sofferenza. La trama è tutta qui, proprio come nei grandi film. A riempire gli occhi degli spettatori ci penserà la descrizione, minuziosa e coinvolgente, del rapporto tra le due donne, la loro interazione, breve ma intensa, e le loro singole motivazioni e sensazioni. Per la sua prima opera in lingua inglese, Almodovar sceglie di allontanarsi soltanto in apparenza dalla sua poetica. In realtà, il regista spagnolo esplicita ancora di più, e senza alcuna remora, i motivi che sono alla base dei suoi maggiori capolavori, l’amore e la morte. L’amore sfiorato e poi mancato da entrambe le protagoniste, la morte vissuta da Martha e condivisa da Ingrid. Sta tutto in questo gioco di riempimento di vuoti reciproci l’essenza di una rappresentazione che punta dritto verso le ragioni ultime della nostra esistenza. Quello di Martha è un finale di partita che le consente di tracciare un bilancio, anche spietato, di sè. Sente di aver fallito come madre, ne è consapevole, ma sa che la vita non è perfezione, ci conduce dove vuole, impossibilitati come siamo a starle dietro in tutte le sue contraddizioni. Ingrid ha, da sempre, avuto paura della morte, ma adesso dovrà trovare il coraggio di conviverci, di farla diventare, seppure per poco tempo, occasione di vita per l’amica Martha.
Per Almodovar non ci sono regole nè comportamenti prestabiliti che possano disegnare il destino di nessuno. Il senso dell’esistenza si acquisisce vivendo, anche dentro l’ultimo atto del nostro essere. Man mano che la narrazione procede, vediamo Martha godere pienamente degli ultimi istanti della propria vita (stupenda la sequenza in cui si affaccia al balcone per respirare a pieni polmoni), ed Ingrid superare la paura della morte proprio standole accanto, imparando a conoscerla e a considerarla parte integrante ed essenziale della nostra esperienza di uomini. In definitiva, Almodovar sembra aver fatto proprio il dire francescano di “Sorella morte”, che giunge al momento giusto per liberarci dal dolore e dare un senso al nostro vissuto. Ed il senso del sacro che pervade il film è già anticipato nel suo titolo, ispirato ad una frase contenuta ne “La morte non è niente…” di Sant’Agostino. Lo sguardo di Ingrid all’amica distesa esanime sulla sdraio del giardino non è rassegnazione ma serena appropriazione del senso dell’esistenza. La morte scelta come apoteosi della vita, come amore per sé stessi e per tutto ciò che ci sta intorno, rifugio ultimo dalla sofferenza e dall’infelicità che ti rendono persino disumano con chi ami e ti ama. Liberarsi dalla negazione di sé stessi è l’atto d’amore più grande che l’Uomo possa mettere in campo. Per mostrarci tutto questo, Almodovar ricorre ad una galleria di citazioni, cinematografiche e non, da lasciare basiti.
La casa dove Martha sceglie di morire è immersa nella natura, e ricorda tanto la celebre “Casa sulla cascata” del famoso architetto americano Frank Lloyd Wright. Ad esaltare il valore poetico e metaforico della natura, come luogo di eterna e ciclica rinascita, il regista spagnolo inserisce le parole dello stupendo racconto di James Joyce, “The dead”, in occasione dell’incantevole nevicata rosa cui assistono le due donne, appena giunte in quella che sarà l’ultima dimora di Martha. E le splendide immagini che il suo grande collega statunitense John Huston trasse dal capolavoro joyciano, nel 1987, sono inserite da Almodovar per amplificare il legame della sua opera con quella dello scrittore dublinese. Anche la magica fotografia di Eduard Grau, che si ispira a quella di Russell Metty per i “drammi cromatici” di Douglas Sirk (soprattutto, il meraviglioso “Secondo amore”, 1955) gioca la sua parte in questo miracoloso vortice di matrioske visive, richiamando al meglio il celebre quadro “Persone al sole” di Edward Hopper, 1960, citato, direttamente ed indirettamente, da Almodovar per evidenziare il senso di serenità ma anche di solitudine vissuto dalle due protagoniste. Dimensione questa che viene evocata anche dalla metonimica locandina del capolavoro di Roberto Rossellini, “Viaggio in Italia”, 1954, (in cui, tra l’altro, i coniugi protagonisti, George Sanders ed Ingrid Bergman, nell’ennesimo rimando, fanno di cognome proprio Joyce), che campeggia davanti ad un cinema dove Martha ed Ingrid si recano insieme (forse omaggio anche al Jean-Luc Godard de “Il disprezzo”, 1963, che lì fece la stessa cosa, in onore del suo amato Maestro romano). Così come il motivo degli amori falliti delle due protagoniste viene richiamato da un dvd presente nella casa di Martha, quello di un altro capolavoro del cinema di sempre, “Lettera da una sconosciuta”, di Max Ophuls, 1948.
E le sequenze di un celebre film dell’immenso Buster Keaton, ” Le sette probabilità”, del 1925, che le due amiche stanno seguendo divertite davanti alla tv, non possono non far venire in mente le assonanze tra i temi del grande artista americano e alcuni di quelli del film di Almodovar, ovvero l’immersione dell’Uomo nel caos del caso e del destino che la vita ci riserva. Allo stesso modo, davanti ai grattacieli di Manhattan, spesso osservati, silenziosamente, dalle due protagoniste (vedi foto sotto), la memoria non può mancare di farci fare un accostamento anche con “Manhattan”, 1979, capolavoro assoluto di un altro genio della Settima arte, Woody Allen, i cui toni malinconici richiamano quelli trattati dal regista spagnolo. Il quale, nell’allineare spesso sulla scena Ingrid e Martha, mostra di aver fatto propria anche la lezione esistenziale dell’Ingmar Bergman di “Persona”, 1966, un must di tutta l’arte novecentesca. La tensione vita-morte, esplicitata nella chiusura-apertura della porta rossa della stanza di Martha, risente della grande lezione di Alfred Hitchcock, finalmente sottolineato da Almodovar nel suo “Umanesimo” troppo spesso trascurato. Dunque, “La stanza accanto” è un film di riflessioni, anche amare, che racconta la vita come una ellissi tutta da decifrare, ma con la certezza che la memoria sarà sempre, quando evocata, testimone della grande “avventura” umana in cui siamo tutti immersi, anche al di là della nostra volontà. E qui la citazione, mai esplicitata nel film, corre verso il sommo nume tutelare di questa straordinaria opera dell’artista spagnolo, Giacomo Leopardi.