Chiunque sia andato in Siria avrà potuto apprezzare il cartello che a ogni valico di frontiera lo salutava così: “Benvenuto negli Siria degli Assad”. Questa riduzione a fatto di famiglia di uno Stato non veniva annunciata altrettanto gentilmente ai residenti, ai quali uno slogan urlato dai miliziani del regime diceva: “Assad o bruceremo il Paese”. E’ quello che hanno fatto. E nell’incendio sono stati bruciate le vite da milioni di siriani. Basta contare i deportati all’estero, circa 6 milioni, e gli sfollati nei campi profughi creati ai confini del Paese, circa 7 milioni. In tutto i siriani erano poco più di 22, 23 milioni. Se si aggiungono i morti, nei modi più orrendi, la domanda che risulta evidente è questa: quanti sono rimasti sotto Assad?
Quando finisce un incubo senza possibili interruzioni durato 54 anni, cioè dal giorno del capostipite di questa strana Repubblica ereditaria, si può pensare di essere arrivati in Paradiso, o temere che cominci un altro inferno. E’ certamente finito un orrore tra i più assoluti nell’intera storia contemporanea, ma cosa arriva? La fretta di guardare al domani è giusta, ma sapere come ha governato la giunta criminale degli Assad aiuta a capire perché le ombre siano evidenti. Gli Assad hanno governato alimentando lo scontro tra le tante comunità, etniche e confessionali, che costruiscono il mosaico siriano. Sia chiaro, pur spacciandosi per “laici”, gli Assad sono leader tribali e si sono vissuti come espressione degli alauiti, piccola comunità nobile e fiera. Impostando il loro regno del terrore su una fedeltà tribale non potevano che temere la comunità più numerosa, i sunniti. I milioni di deportati sono quasi tutti appartenenti alla loro comunità, una sorta di pulizia confessionale. Il modello è stato poi affinato: i prezzolati di Assad effettuavano provocazioni contro un villaggio di una certa comunità per incolparne quella vicina. Questo circuito di odio e paura poneva il regime al centro di un sistema in cui lui ricattava tutti, atteggiandosi a protettore.
Lo stesso ho fatto con i mostri ideologici, terroristi, che sono emersi grazie al suo regno delle tenebre. Un esempio: chi oggi guida gli insorti, Abu Muhammad Julani, era un miliziano di al Qaida, che lui graziò nel 2011, a differenza dei leader della primavera che non graziò, li tenne nelle sue segrete. Così gli opposti estremismi si tengono in piedi. Assad, memore della lezione paterna, sapeva che solo alimentando mostri poteva presentarsi come “il male minore”. Anche quando, nel 2013, ha di tutta evidenza – ora è acclarato- usato i gas contro i civili, i suoi tirapiedi sostennero che erano stati gli stessi insorti. Questo è governare con il terrore e alimentando il terrorismo.
Ora l’uomo che lui ha intenzionalmente graziato, Julani, lo ha defenestrato. A sostenerlo certamente ci sono i suoi miliziani jihadisti, altri miliziani filo-turchi, e così via. Ma alle loro spalle si vedono milioni di diseredati che vogliono tornare nelle loro case, alla loro terre dalle quale sono stati scacciati. Questo popolo umiliato non ha nulla a che fare con le ideologie, ha conosciuto per anni un destino impensabile, rinchiusi in spazzi angusti come pollai, e ora torna a casa. E alcuni avranno dentro di sé anche sentimento di odio.
Ecco perché insieme al loro dolore è chiaro che altri vivono la paura. La paura di una ritorsione, ma soprattutto la paura di uno scontro comunitario. I leader jihadisti nutrono odio verso gli sciiti: chi li proteggerà come comunità? I curdi sono chiaramente nel mirino del finanziatore degli insorti, Erdogan: chi li proteggerà dall’evidente intenzione di ridurre le aree sotto il oro controllo? Poi ci sono i cristiani e la loro paura è altrettanto umana. Anche al loro riguardo ci sarebbe molto da dire: ognuno ha commesso errori, seguito scorciatoie, attaccato, colpito, usato ai propri fini, qualche volta anche il regime. Ma i timori sono fondati e vanno considerati come prioritari perché mai le comunità sono responsabili collettivamente.
Oggi il mondo in Siria si è capovolto. E’ uscito di scena il disegno teocratico dei khomeinisti al quale Bashar al Assad si era legato mani e piedi riducendo il suo Paese a un corridoio al loro servizio, oltre che alla banchina dell’aviazione e della marina militare russa. E’ stato anche trasformato in una fabbrica di droga in collaborazione con i cartelli del narcotraffico. Questa pagina è enorme ed è stata chiusa. E’ un cambiamento epocale. L’esportazione della teocrazia khomeinista è finita. Ma per i siriani il fatto è siriano non globale, è questo che vogliono governare.
Julani, il jihadista che guida il composito cartello degli insorti, si è trasformato. Veste in giacca e camicia bianca, non ha più il barbone, ma una barba ben coltivata, non si fa più chiamare Julani, il suo nome di battaglia, ma Ahmad Sharaa, il suo nome all’anagrafe siriana. Parla di rispetto per gli altri. La trasformazione dell’abito e del nome di Julani ha rilievo? Lui a suo tempo è emerso nel nome dell’odio verso gli sciiti. Questo è un primo rischio per l’oggi: le comunità sciite chi le tutelerà? Ed ecco un altro rischio, quello curdo. C’è una certa rivalità tra curdi e arabi, ma è soprattutto il grande finanziatore degli insorti, il turco Erdogan, a chiedere di regolare i conti con i suoi rivali. Questa seconda mina, che già si vede portare a galla attacchi ed espugnazioni a dir poco preoccupanti, porta a galla l’ulteriore mina, quella cristiana. Che possano temere il precedente tipo di barba usato per anni da Julani lo definirei un “atto dovuto”. Ma allora è dovuto anche pensare che se i cristiani avessero avuto il coraggio di unirsi alla Primavera negli anni passati la storia oggi sarebbe diversa. La storia non si fa con i sé, ma se i patriarchi avessero osato vedere lo spazio nel 2011 di una rivolta islamo-cristiana forse parleremmo di un altro sviluppo, dalle ricadute per tutto il Mediterraneo. Non è andata così. Qui si gioca una partita anche di altra natura: Julani seguiterà ad alimentare una visione, dal suo punto di vista, di “scontro di civiltà”?
La conferma del premier in carica da parte degli insorti conforta in questo senso. Non credo che si eviti il caos andando a rapide “libere elezioni” come lui ha detto, ma progettando un federalismo che unisca i siriani nell’indispensabile rispetto delle loro diversità. Se, come appare, è il non riconoscere le diversità che produce la violenza, appare preferibile la strada inversa. Un cammino consensuale, federale, farebbe molto bene a quelle società uscite dal buio pesto. Non arriverà Tocqueville nel giro di poche ore, il modello da auspicare è quello federale. La voce di una possibile morte di Assad mentre era in volo verso una base russa confermerebbe che la strada dell’odio comunitario è mortale.