Il fenomeno migratorio contemporaneo coinvolge milioni di persone, con le donne che costituiscono circa la metà delle persone migranti a livello globale. Tuttavia, il loro ruolo e la loro esperienza nei processi migratori sono stati storicamente oscurati. Una forma di discriminazione che marginalizza le esperienze delle donne in migrazione anche a livello accademico e che merita invece una riflessione più avanzata e aggiornata rispetto a quella sinora sviluppata.
La relazione tra genere e mobilità è sempre stata al centro di un dibattito che ha evidenziato come la mobilità sia stata declinata al maschile, mentre alle donne è stato riservato il ruolo statico di custodi del focolare domestico, o di persone che seguono la migrazioni degli uomini tenendo sempre per mano i figli. Questa divisione non è frutto di scelte individuali, ma il risultato di costruzioni sociali basate su ruoli biologicamente determinati. Meccanismi radicati nelle logiche patriarcali hanno confinato le donne ai margini della sfera sociale e culturale, riducendole a stereotipi di dipendenza e improduttività.
Eppure, le donne migranti non sono solo spettatrici nei processi di mobilità o soggetti secondari: sono protagoniste di viaggi che non si limitano al mero spostamento geografico, ma che rappresentano percorsi di resilienza, trasformazione e sfida a narrative consolidate.
Il genere riveste un ruolo fondamentale nel definire il percorso migratorio. Tuttavia, non agisce mai in isolamento: si intreccia con altre dimensioni identitarie, rendendo l’esperienza migratoria femminile ancora più sfaccettata e complessa. La stratificazione di questi elementi porta infatti alla riproduzione di strutture sociali di potere che discriminano la donna migrante in tutto il suo processo migratorio, non solo per il genere, dal paese d’origine fino alla società d’arrivo.
Un contributo alla comprensione di queste dinamiche è rappresentato dal progetto di ricerca “L’intersezionalità nelle storie di vita delle donne migranti: caso italiano e caso spagnolo a confronto”, di Eleonora Cornacchia, laureata magistrale in Relazioni Internazionali che ha avuto come relatore Marco Omizzolo, docente di Sociopolitologia delle migrazioni al dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Sapienza di Roma.
Il progetto ha ricevuto il Premio Speciale Focus Inclusione Donne Migranti nell’ambito dell’VIII Edizione del Premio Valeria Solesin, promosso dal Forum della Meritocrazia. Questo prestigioso riconoscimento, riservato alle migliori tesi magistrali sul tema “Il talento femminile come fattore determinante per lo sviluppo dell’economia, dell’etica e della meritocrazia nel nostro Paese”, rende omaggio al lavoro di ricerca dedicato alle donne migranti. Il premio, intitolato alla memoria di Valeria Solesin, ricercatrice italiana presso la Sorbona di Parigi vittima della strage del Bataclan nel 2015, sottolinea l’urgenza di esplorare il ruolo delle donne migranti per promuovere la loro piena inclusione nelle società di accoglienza.
La ricerca ha avuto origine dall’osservazione di una problematica sociale, di cui sono vittime le donne migranti vittime di violenza di genere, che ha dato vita ad un’indagine comparativa tra Spagna ed Italia caratterizzata da attività̀ di ricerca ed esplorazione sociopolitica direttamente sul campo. Attraverso l’uso di metodo qualitativi, quali interviste in profondità, sono state raccolte e analizzate le storie di vita di donne migranti vittime di violenza di genere, incontrate inizialmente nel contesto spagnolo, grazie alla partecipazione a attività di volontariato presso l’associazione Hèlia di Barcellona, impegnata nel supporto e accompagnamento delle donne vittime di violenza. Successivamente, la ricerca si è estesa in Italia, a Roma, prima attraverso un tirocinio presso il Centro Antiviolenza “Alessia e Martina Capasso” del Municipio 1, e poi con un periodo di ricerca nello Spazio Donna WeWorld, gestito dalla cooperativa BeFree nel quartiere San Basilio.
Nei paesi europei, come Spagna e Italia, i flussi migratori sono spesso visti come eventi eccezionali e pericolosi, dando vita a politiche migratorie di stampo securitario che non si concentrano sulla persona, ma sul suo respingimento. Questo approccio, che include l’innalzamento di barriere ai confini e la loro sorveglianza, legittima la creazione di ulteriori barriere anche all’interno dello Stato: non solo fisiche ma anche politiche, sociali, economiche e culturali.
Tali ostacoli separano un’accoglienza formale da una reale inclusione, lasciando spesso le donne migranti intrappolate in una condizione di marginalità. Infatti, come evidenziato dalla ricerca, tale passaggio resta spesso incompiuto in quanto le società ospitanti non riconoscono che tali barriere non si manifestano mai in modo isolato, ma interagiscono tra loro in maniera combinata e simultanea, con intensità variabile a seconda della posizione occupata dalla donna migrante nella società ospitante, nella comunità di origine e nell’ordine di genere di appartenenza, tenendo conto anche di fattori come classe e/o etnia.
Per questo motivo, il quadro teorico adottato nella ricerca è stato quello dell’intersezionalità, che ha permesso di esplorare come l’interazione tra il fenomeno migratorio e la violenza di genere conduca alla creazione di una sottocategoria ancora più marginalizzata nelle società ospitanti. Questo approccio riconosce che tutte queste dimensioni sono interconnesse e contribuiscono congiuntamente a formare la biografia di una persona; pertanto, devono essere analizzate contemporaneamente per ottenere una visione completa.
L’indagine condotta ha esaminato il contesto in cui la donna è accolta, sia a livello del sistema di accoglienza statale in relazione alla sua condizione di migrante, sia attraverso il sistema specificamente dedicato al supporto e al sostegno delle donne vittime di violenza di genere, mettendo in evidenza l’urgenza di un ripensamento radicale dei modelli di accoglienza.
Innanzitutto, è emerso che per colmare le attuali lacune, è fondamentale un cambiamento nell’approccio all’immigrazione: da una logica emergenziale, focalizzata sulla gestione e sul controllo, a una visione più ampia, che riconosca le migrazioni come una componente strutturale della società. Questo cambio di prospettiva promuoverebbe anche un’evoluzione nei servizi dedicati alle donne vittime di violenza di genere garantendo interventi più adeguati alle vulnerabilità delle donne migranti.
L’evoluzione del sistema di accoglienza per le persone migranti richiede un’attenzione maggiore alle specificità di genere. I centri di accoglienza, attualmente caratterizzati da strutture rigide e controllate, spesso sorvegliate dalle forze dell’ordine, presentano condizioni di vita che talvolta rasentano l’inumanità. Come emerso dall’indagine, questi spazi non considerano la violenza di genere come un aspetto intrinseco del viaggio migratorio, che spesso funge da motore stesso della migrazione. Anzi, tali situazioni di sfruttamento e violenza sono, in alcuni casi, presenti anche all’interno delle stesse strutture di accoglienza.
Questo approccio porta molte donne migranti a interiorizzare la violenza di genere come parte naturale del loro percorso, facendo sì che la priorità diventi la regolarizzazione del loro status piuttosto che il riconoscimento della violenza subita. Le esperienze traumatiche, infatti, non emergono nei primi stadi del processo di accoglienza, ma solo successivamente, quando le donne si rivolgono ai centri antiviolenza per elaborare le violenze subite nel paese ospitante.
Parallelamente, per un cambiamento significativo a più ampio spettro, è essenziale adottare un approccio intersezionale anche nei centri antiviolenza e nelle associazioni femministe, che tenga conto delle molteplici dimensioni identitarie ed esperienziali delle donne migranti, andando oltre la sola questione di genere. Solo in questo modo sarà possibile co-costruire percorsi di uscita dalla violenza che non si limitino al supporto immediato, ma che favoriscano una reale inclusione sociale e l’autodeterminazione delle donne.
Ignorare queste complessità non farebbe che perpetuare la loro marginalizzazione, escludendole dal processo di integrazione nelle società ospitanti. Riconoscere e abbracciare la complessità, invece, non solo garantirebbe loro immediata protezione, ma anche gli strumenti necessari per diventare protagoniste attive del proprio futuro.