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In ricordo di Guido Compagna

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Non so nemmeno da che parte cominciare per rendere omaggio a Guido Compagna, scomparso ieri all’età di settantotto anni, a causa di una malattia che non gli ha dato scampo. Non racconterò la sua vita, pure bella, intensa e ricca di aneddoti, ma la mia avventura al suo fianco, durata otto anni: quanto basta per volergli bene come a un padre, per considerarlo uno di famiglia e per intrattenere conversazioni che non dimenticherò mai.
È dura scrivere senza lacrime, ma cerco di trattenermi perché Guido non le avrebbe volute. Lui era il ritratto della gioia e della felicità, con quella napoletanità verace che lo caratterizzava in ogni circostanza, una passione civile sempre viva e feconda, un entusiasmo per la vita che non esiterei a definire fanciullesco e un’incredibile attenzione ai dettagli che lo rendeva un interlocutore con cui si poteva parlare di tutto.
Quando iniziai l’inchiesta sui fatti di Genova, fu uno dei primi a incoraggiarmi ad andare fino in fondo, raccontandomi dell’estate del ’60, l’altra Genova, quella di Tambroni, un momento cruciale nella storia di questo Paese e anche nella sua vicenda personale e familiare. Fu allora, infatti, che iniziò a seguire la politica e, per fortuna, non ha mai smesso. Ricordava bene i racconti di suo padre Francesco, “Chinchino”, il clima da colpo di Stato che si respirava in quei giorni e il senso di sollievo che si provò, nella sua famiglia e non solo, nel momento in cui quella tragica esperienza di governo finalmente si concluse. Ricordava tutto Guido e, soprattutto, raccontava, condivideva la sua memoria con i più giovani e non aveva perso la voglia di esplorare. Anche dopo i settanta era sempre sul pezzo, sempre pronto a imparare nuove cose, sempre disponibile. Quando cominciai l’avventura dell’Emiciclo, pensando che sarebbero venuti ospiti amici, parenti e poco altro, lui mi disse che per me sarebbe stato sempre disponibile, e poter ospitare una personalità di quel calibro in una piccola trasmissione online costituiva un piacere e un onore. Le sue analisi politiche, del resto, erano perfette: puntuali, profonde, illuminanti. Non sempre, come capita nelle migliori amicizie, siamo stati d’accordo, ma non abbiamo mai litigato. E se qualche volta ci siamo accalorati, ad esempio all’inizio della guerra in Ucraina, è perché per entrambi la politica è sempre stata e sempre sarà una scelta di vita.
Con Guido, del resto, nella stessa mattinata, potevi parlare del colonnello Giovannone, dell’Avvocato Agnelli, dei giorni in cui Valpreda portava libri, in qualità di rappresentante, all’allora direttore del Sole 24 Ore Gianni Locatelli, e questi ironizzava in modo un po’ macabro sulla borsa, di Nenni, che quando lo vide la prima volta gli sembrò vecchissimo, di Saragat, della Marcia dei Quarantamila nella Torino del 1980, della sera della vittoria mundial in cui suo padre, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, spiegò a Spadolini, che di calcio non capiva assolutamente niente, cosa dire e come comportarsi di fronte all’Italia in festa, di tennis e, naturalmente, del suo amato Napoli. Una volta, venne in diretta a parlare di sport e citò l’intera formazione del Napoli dei primi anni Cinquanta. La sua vera passione, tuttavia, come detto, era la racchetta. Aveva giocato a tennis e lo amava alla follia. Non a caso, in tempi non sospetti, mi aveva confidato che Sinner sarebbe diventato un fenomeno, e ancora una volta ci aveva visto giusto.
Qualche anno fa, ho avuto anche l’onore di poter leggere in anteprima il suo memoir: “Quando eravamo liberali e socialisti. Cronache familiari di una bella politica“, edito da Rubbettino. La bella politica, già, quella che sapeva mescolare entusiasmo e competenza, concretezza e amore per la comunità, passato, presente e futuro.
Una mattina, davanti a uno dei nostri tanti caffè, mi parlò di quando “Nord e Sud”, la rivista che si era inventato suo padre insieme ad altri visionari, alla vigilia della nascita del centro-sinistra aveva compiuto un viaggio nell’universo socialista, e giù ricordi, aneddoti, considerazioni, compreso quello, amarissimo, del suo scontro col padre (all’epoca già un politico di primo piano) ai tempi dell’elezione di Leone con i voti decisivi del MSI. Un fiume in piena: questo è stato Guido fino all’ultima volta che ci siamo visti, in aprile, quando stava già male ma non per questo rinunciava a seguire le vicende politiche, a commentarle col suo stile inimitabile e a essere protagonista di un dibattito che lo faceva soffrire sempre di più ma al quale non intendeva rinunciare.
Mi ha detto anche tante cose meravigliose in ambito privato, ma quelle me le tengo per me, come il ricordo dei caffè che ci preparava sua moglie Elena, accompagnandoli con dei biscotti buonissimi. A lei e alla figlia Margherita un abbraccio fortissimo.
Caro Guido, perdonami, ma non riesco a non piangere, pertanto mi fermo qui. Ti porterò sempre con me: ovunque andrò, qualunque cosa farò. E ti dedicherò le battaglie nelle quali tut stesse saresti stato in prima fila, a cominciare da quella in difesa dell’articolo 21, della democrazia e della Costituzione. Perché è di battaglia che oggi c’è bisogno, non di resa. E tu, con l’ironia che ti era propria, non ti sei mai arreso e non lo avresti fatto mai.
Continueremo, dunque, a lottare anche per te.
Ciao amico mio, dal profondo del cuore.

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