Lo spirito di Fellini, imprevedibilmente sprigionato da una vecchia cassapanca dimenticata da troppo tempo, torna a soffiare fecondo sul nostro cinema dischiudendo scenari inattesi.
Possiamo finalmente annunciare la nascita del Neo Irrealismo italiano: da un lato lo sfarzoso espressionismo astratto di Paolo Sorrentino, dall’altro il sorprendente film di Gabriele Salvatores dal titolo deamicisiano, Napoli – New York, a cui va aggiunto d’ufficio un sottotitolo indispensabile per comprendere meglio l’operazione: Cico e Pallina sull’Oceano.
I felliniani sanno bene che il primo amore adolescenziale di Fellini si chiamava Bianchina, giovane figlia di una famiglia dirimpettaia con la quale Federico amoreggiava da finestra a finestra promettendosi eterno amore e addirittura progettando una fuga insieme. L’improvviso trasferimento del padre di Bianchina aveva interrotto bruscamente quell’acerba passione, e i due ragazzi che si erano sentiti perduti; Federico aveva persino preso un treno per raggiungere Bianchina a Milano, ma poi la vita di entrambi aveva imboccato altre strade.
Ed ecco che la creatura vagheggiata ricompare, con il nome di Celestina, in un vecchio trattamento che Fellini aveva scritto a quattro mani con Tullio Pinelli, molto prima di diventare regista, quando sfornava insieme al drammaturgo torinese storie cinematografiche a getto continuo, soprattutto per la Lux Film dell’ing. Guarino.
In Napoli-New York, i suoi tipici ingredienti narrativi riemergono con grazia. La vicenda è datata al 1949, e Pallina rinasce per noi sotto le spoglie di una bambinetta napoletana, di nome Celestina, alla quale è letteralmente crollata la casa sulla testa, anzi l’intero palazzo in cui abita. Lei si salva miracolosamente, forse grazie anche a quella statuetta della Madonna di Pompei ritrovata intatta tra le macerie. La bimba non ha più casa né famiglia, non ha più nessuno, è orfana, e la zia con cui abitava è morta nel crollo dell’edificio. L’unica sorella, più grande di qualche anno, è emigrata in America al seguito di un soldato donnaiolo che le prometteva di sposarla.
La trama, alla quale Salvatores sembra si sia attenuto con fedeltà, è semplice ed efficace, con l’aggiunta di un finale a sorpresa, un inserto da legal drama (film giudiziario) con cui chiudere a tutto tondo la favola. Perché di favola si tratta.
Il racconto è del tutto inverosimile e proprio per questo perfettamente credibile. Come sono appunto credibili le fiabe, che non hanno alcuna ambizione di realismo, ma parlano al cuore e ci catturano con la loro carica di misteriosa verità. Ancora meglio quando recano l’impronta di un genio.
Napoli-New York è una fiaba moderna che avrebbe potuto realizzare Frank Capra. E Salvatores non è stato da meno.
Celestina, nella città diroccata, può contare sull’unico appoggio di Carmine, uno scugnizzo di poco più grande, ma già ben istruito alla sopravvivenza, il quale riuscirà, in combutta con un cuoco di colore, a farla salire con sé sulla nave Victory, in partenza per New York.
Ecco dunque Cico e Pallina trasformati in due passeggeri clandestini, al centro di una nuova, magica, straordinaria avventura che li condurrà in America, la nazione della ricchezza, il Paese di cuccagna sempre sognato, che “tiene la Statua della Libertà al posto della Madonna di Pompei”.
La traversata ci riconduce all’epoca in cui gli emigranti cantavano “Santa Lucia luntana”, la canzone scritta da E. A. Mario nel 1919: “Partono ‘e bastimente p’ ‘e terre assaje luntane, cantano a buordo e so’ napulitane!”
Meglio non dimenticare: le cifre indicano che saranno ventiquattro milioni gli italiani costretti ad abbandonare l’Italia per quell’esilio inevitabile.
Ma nel film siamo nei primi anni dell’ultimo dopoguerra. Nella stiva della Victory si accalcano come animali i tanti poveri cristi che nella disperazione hanno trovato il coraggio di andare incontro a un destino ignoto, con l’unico scopo di scampare alla miseria. Qualcuno muore durante la navigazione, inseguendo il miraggio.
Della storia entrano a far parte i due monelli che sarebbero piaciuti a Charlie Chaplin, il cui sguardo occhieggia sornione e benedicente nello stile del regista. Ma anche del protagonista maschile Pierfrancesco Favino, che interpetra il commissario di bordo Domenico Garofalo, napoletano, con prodigiosa aderenza, come avviene quasi sempre agli attori di razza quando a dirigerli dietro la macchina da presa c’è un vero regista.
I due giovanissimi interpreti, Carmine e Celestina (Antonio Guerra e Dea Lanzaro), sono mostri di bravura; intensa è anche Anna Ammirati, nel ruolo della moglie illanguidita dal grembo sterile, e pirotecnico si rivela Antonio Catania, direttore del giornale della Little Italy, dalle cui pagine saprà ingigantire a tal punto il pietoso caso di cronaca, da trasformarlo in una presa di coscienza collettiva e quasi in una sollevazione popolare.
Ma è meglio non anticipare ciò che succede a New York, e scoprirlo da soli davanti a un grande schermo, come ancora è possibile e ci auguriamo per tanto tempo a venire; sarebbe un peccato mortale perdere l’occasione di rianimarci con un’ampia boccata di ossigeno rigeneratore, dopo tanta cinematografia scivolata tra le mani di impiegatucci capitati sul set per la pagnotta.
Dove son finiti gli autori, dove latita “Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge” capace di creare poesia?
Usciamo dal letargo e salutiamo con gioia questo inaspettato ma tanto atteso “NeoIrrealismo” di marca felliniana, in grado di erogare una carica di fantasia, di sogno, di follia, di vita e di spettacolo da cui temevano di essere ormai esclusi.
Godiamoci con cuore semplice l’emozione dei due bambini, sdraiati di notte sulla tolda della nave a guadare il cielo immenso che li sovrasta, scoprendo meravigliati che le stelle sono più grandi che a Napoli.
Ben tornati Cico e Pallina messaggeri del mondo felliniano.
E quando dico felliniano, non mi riferisco certo al fellinismo di maniera, per fortuna completamente assente dal film di Salvatores, ma al riaffacciarsi di quel sentimento che sembra incuterci tanta paura: esiste una vera vita palpitante al di fuori degli algoritmi. Riprendiamocela.
Non poche sono le tracce disseminate nel film dall’antico soggetto di Fellini e Pinelli, e che è un bel gioco rinvenire. Ecco alcuni topoi, cioè i luoghi narrativi, tanto cari all’artista riminese:
la processione, il simil Busto di San Gennaro, portato a spalla per le strade di Brooklyn per credere ai miracoli anche nel Nuovo Mondo.
La chiromante che non vede la linea della fortuna sul palmo di Carmine, e lo scugnizzo se la scava a sangue con la lama del coltello, come l’eroe di un famoso fumetto di Hugo Pratt.
La sala cinematografia newyorchese in cui si proietta Paisà, il capolavoro di Roberto Rossellini sceneggiato da Fellini, che considerava quella pellicola l’unica vera espressione del neorealismo.
La figura del negro americano, buono di cuore, che salva i due ragazzini, e ne viene salvato.
Sarà ancora la coppia Fellini Pinelli a scrivere il film di Alberto Lattuada “Senza pietà”, in cui il protagonista era John Kitzmiller, americano di colore, reclutato di nuovo in “Luci del Varietà” (1950) per improvvisare in piena notte un improbabile a solo di tromba.
E poi c’è il finale sospeso, la partita a ‘mazzetti’ tra Carmine e Domenico Garofalo, con la quale giocarsi il destino a chi alza la carta più alta.
Prevalgono la forza del sentimento, il senso del mistero, l’attesa, e quel turbamento infantile che Fellini accarezzava fino agli ultimi giorni di vita, quando sussurrò a Enzo Biagi il suo segreto desiderio: “Innamorarsi ancora una volta”.
La vita come amore, la vita come eterno incontro di Cico e Pallina: le favole immortali più vere di qualsiasi piatta cronaca che si brucia e diventa cenere.