Paola e Claudio escono dall’aula quando si annuncia la video testimonianza di due ex detenuti in un carcere non ufficiale egiziano che ricordano di aver visto Giulio prima e dopo le torture: troppo forte per loro ripercorrere il calvario di un figlio.
Dall’aula Occorsio del tribunale di Roma esce anche Irene Regeni che poco prima aveva reso la sua testimonianza, tenera e straziante nel ricordare un fratello, un amico, strappato alla famiglia e alla vita senza un perché.
“Perché? è la domanda che ci facciamo ancora oggi” ripete più volte davanti ai giudici commossi con addosso la fascia tricolore. Irene racconta di avere sentito per la prima volta parlare di torture in Egitto proprio nei giorni in cui alla tv danno la notizia della morte del fratello. “Segni di tortura” dicono i giornalisti mentre al telefono dal Cairo la mamma che con papà Claudio aveva visto il corpo martoriato del figlio, le dice che a Giulio “Hanno fatto tanto male”.
Le mani di Irene strisciano sul tavolo davanti al quale siedono i testimoni, come a voler ripulire i ricordi riaffiorati da quell’orrore. Ma i dettagli di quell’orrore Claudio, Paola e Irene non li possono sentire. Le testimonianze shock sono state registrate da un giornalista di Al Jazeera che riesce a rintracciare due palestinesi ex detenuti in un carcere non ufficiale a poca distanza dal Cairo. Arrestati ad agosto del 2015 al valico egiziano con Gaza di Rafah, dicono senza accuse né processo. Rinchiusi per due anni e mezzo in celle di un metro per sette in totale isolamento dove potevano solo osservare altri detenuti trascinati nella sala delle torture.
Il 29 gennaio del 2016 in quella stanza vedono portare anche un giovane italiano che poi riconoscono essere il ricercatore di Fiumicello trovato morto sul ciglio di una strada non troppo lontano da quel carcere. Portato in quella stanza bendato, viene torturato. “Anche con scariche elettriche” riferisce uno dei due palestinesi: entrambi ricordano di averlo visto uscire stremato e trascinato sulle spalle di uno dei suoi aguzzini tra i quali riconoscono almeno due dei quattro agenti della security egiziana imputati al processo. Entrambi ricordano di aver sentito chiedere più volte dai torturatori chi gli avesse insegnato le tecniche di resistenza a quel massacro sul suo corpo.
Giulio non poteva rispondere a quella domanda. Giulio non capiva di essere finito in una ragnatela fatta di spie e di traditori in un Paese in cui in certi casi il diritto alla difesa non viene proprio contemplato.
Perché Giulio? É la domanda che ancora oggi si chiedono i familiari e molti di noi.