Una testimonianza toccante quella di Irene Regeni al processo in Corte d’Assise a Roma questa mattina.
Ha restituito la parte più umana di Giulio. La complicitá familiare, la spensieratezza, una famiglia unita, aperta al mondo. Giulio “colla sociale”, generoso, pronto ad aiutare gli amici. All’estero “sapeva come stare fuori”: estroverso ma cauto, sempre attento.
Dal Cairo non ha mai espresso timori o preoccupazioni. Era impegnatissimo nello studio, fruiva di una borsa di studio parziale e aveva un tenore di vita basso per non pesare sui genitori.
Irene Regeni ha ricordato il giorno in cui ha appreso dai genitori della scomparsa di Giulio, delle rassicurazioni e delle istruzioni ricevute dalle Istituzioni, la consegna del silenzio rispettata alla lettera “perché noi rispettiamo le istituzioni e abbiamo fatto ció che ci hanno chiesto”. Il 3 febbraio del 2016 Irene, campionessa di pattinaggio artistico, si stava allenando. Lì ha appreso che tutto era compiuto, lì ha parlato con la madre al telefono. “Perché a Giulio?”. La prima domanda che si sono fatti e che è la domanda che ancora si fanno ogni giorno.
L’udienza è proseguita con la proiezioni di filmati di testimoni palestinesi all’epoca rinchiusi nello stesso luogo di tortura (arrestati, torturati, detenuti per due anni senza sapere mai il motivo) di Giulio; hanno raccontato la struttura gerarchica degli ufficiali presenti e la condizione carceraria dei detenuti. In isolamento, in celle minuscole dove era impossibile sdraiarsi. Senza cambi, senza riguardo delle stagioni, del caldo, del freddo, della totale assenza di luce.
Lì si consumavano torture fisiche e psicologiche.
Lì in quel carcere hanno visto passare Giulio, sfinito, bendato, portato a spalle da due carcerieri.