Vogliamo iniziare quest’articolo citando i passaggi di una lettera. È il testamento spirituale di Giacomo Ulivi, partigiano di appena diciannove anni, fucilato a Modena il 10 novembre del ’44: “Vorrei che con me conveniste quanto ci sentiamo impreparati, e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto, dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo: è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di “quiete”, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica”. Proseguiva, infatti, Ulivi: “È il tremendo, il più terribile, credetemi, risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per vent’anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di “specialisti”. Duro lavoro, che ha le sue esigenze: e queste esigenze, come ogni giorno si vedeva, erano stranamente consimili a quelle che stanno alla base dell’opera di qualunque ladro e grassatore. Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. Comodo, eh? Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica – se vita politica vuol dire soprattutto diretta partecipazione ai casi nostri – ci siamo stati scaraventati dagli eventi”. E poi il passaggio più significativo: “Credetemi, la “cosa pubblica” è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come “patriottismo” o amore per la madre in lacrime e in catene vi chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro Paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo?”.
Aveva diciannove anni, ribadiamo, ma in questa lettera c’è tutto, come c’è tutto nel coraggio di un’altra straordinaria figura di quegli anni: Oskar Schindler, l’imprenditore che si era trasferito a Cracovia, dopo che la città era stata conquistata dai nazisti, nella fondata speranza di arricchirsi ulteriormente. Solo che, a un certo punto, di fronte all’orrore dell’Olocausto, anche la sua sete di ricchezza dovette fare i conti con la storia e con la barbarie che gli scorreva davanti agli occhi. Fu così che nacque la “Schindler’s list”, la lista di ebrei che decise di impiegare nella sua fabbrica, salvandoli di fatto dalla deportazione e dalla morte. Non era un sincero democratico, un partigiano o un combattente; era soltanto un uomo d’affari che, posto davanti all’abisso, scelse da che parte stare, decidendo di non restare indifferente. Se ne è andato mezzo secolo fa, a soli sessantasei anni, e nel ’93 Steven Spielberg lo ha fatto conoscere al mondo intero attraverso un film destinato a restare nella storia del cinema.
Scriviamo queste riflessioni, rendendo omaggio a personalità che hanno arricchito l’umanità con la propria passione e il proprio coraggio, mentre siamo purtroppo costretti a occuparci di un tale che ricopre un incarico forse più grande di lui, il quale ieri ha dichiarato testualmente che “l’idea di veder sfilare questo potente mezzo, che dà il prestigio, con il Gruppo Operativo Mobile sopra, far sapere ai cittadini chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia”. Vien voglia di ricordare a questo signore che il G.O.M., al di là dei suoi indubitabili meriti, era pure il nucleo della penitenziaria che operò nel luglio del 2001 nella caserma di Bolzaneto, nelle forme e nei modi che conosciamo. Vien voglia di ricordargli ancora quante volte l’Unione Europea ci abbia sanzionato per le condizioni disumane e degradanti in cui sono costretti a vivere i detenuti in Italia. Vien voglia di ricordargli infine quanti siano stati, dall’inizio dell’anno, i suicidi dietro le sbarre. Tuttavia, sappiamo che non servirebbe a nulla. Con un personaggio del genere, pertanto, ma non abbiamo intenzione di dialogare.
Ci rendiamo conto che in questa fase storica tutto stia saltando. Stanno venendo meno le istituzioni, la Costituzione, i diritti e i principî cardine della dignità umana, e non solo alle nostre latitudini.
Del resto, se un gruppo di teppistelli che fa irruzione in un cinema offendendo spettatrici e spettatori mentre stavano vedendo il film di Andrea Segre dedicato a Berlinguer e compiendo atti vandalici può essere derubricato persino dalle forze dell’ordine a “ragazzata”, allora vale tutto.
Concludiamo, dunque, con un’altra citazione, forse la più amara e attuale: “Mi fa paura quella parola che mi faceva paura anche allora e che ho voluto fortissimamente scritta a caratteri cubitali al binario 21 del Memoriale della Shoah a Milano: indifferenza. L’indifferenza è stata colpevole allora perché non ci si può difendere da chi volta la faccia dall’altra parte ed è lo stesso pericolo che c’è anche oggi”. Firmato: Liliana Segre.
(Nella foto il Memoriale della Shoah a Milano)