100 anni di radio, 70 di televisione: una festa che rimuove il fascismo

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Si è celebrato il primo secolo di vita del piccolo grande medium radiofonico, che prendeva forma il 6 ottobre del 1924, agganciandovi un opinabile ottantesimo anniversario della televisione. Per la radio la nascita è confermata nella sua ufficialità dalla stipula della convenzione tra l’allora ministero con a capo Costanzo Ciano e l’Unione radiofonica italiana (URI), nel terribile anno in cui fu ucciso Giacomo Matteotti. E dalle ceneri dell’URI nacque nel 1927 il più noto Ente italiana audizioni radiofoniche (EIAR), che costituì un vero fiore all’occhiello per il regime e un micidiale strumento di indottrinamento e propaganda: leggi razziali, conquiste coloniali, vittorie militari, bonifiche, e così via. Barbarie sonora. Insomma, i festeggiamenti speciali condotti da Carlo Conti hanno avuto un titolo improprio: «Un secolo di Servizio Pubblico». Fuorviante sia per la rimozione del segno politico e culturale nero originario, sia perché l’antico monopolio di Stato divenne effettivo servizio pubblico solo con la legge n.103 del 1975. In verità, non ci sono ore X o Eureka: le scoperte hanno una lunga gestazione e l’avvio effettivo di un medium ha bisogno della convergenza della maturità tecnica con le possibilità di riprodurre i prototipi a costi abbordabili dal consumo di massa. Ciò vale anche – e forse soprattutto- per il video, già ampiamente sperimentato nel primo novecento, legato ad una catena industriale complessa. Gli Stati Uniti, con le potenti aziende del settore, ebbero una prevalenza indubbia, suddivisa con la Gran Bretagna. Inglese, del resto, era la società costruita dal Premio Nobel Guglielmo Marconi, tanto blasonato quanto legatissimo a Benito Mussolini. Comunque, a lui e al russo Popov si deve la scoperta dello strumento che rivoluzionerà il mondo già alla fine dell’Ottocento. Tra l’altro, fu il presidente statunitense Roosevelt con il New Deal a valorizzare la funzione anticiclica (c’era la crisi del ’29) della radio attraverso gli annunci pubblicitari, in grado di dare un contributo all’economia. La radio serviva come megafono dei regimi e pure come strumento dell’evoluzione fordista del capitalismo.
La radio in cento anni ha attraversato tante ere geologiche negli stili e nelle modalità di fruizione di quella miscela di successo costituita da informazione, educazione e intrattenimento. Si aggiorna costantemente e si ri-media con una naturalezza che lo schermo non ha. Persino l’intreccio con la rete è intrinseco al mezzo: la Web radio si accompagna alla schiera ormai decrescente delle emittenti hertziane (dal nome di Rudolf Hertz, con Nikola Tesla e James Maxwell componenti dell’aristocrazia degli inventori). La radio è la voce, inesorabile nella dimensione fonetica e immediatamente assunta dai terminali emotivi, senza la fuorviante schermatura dell’immagine. Di voci celebri e straordinarie se ne possono ricordare numerose: dal timbro perfetto di Sergio Zavoli che intervista la monaca di clausura, all’inventiva gioiosa di Arbore e Boncompagni, allo straordinario successo di «Tutto il calcio minuto per minuto», a mille altri programmi parlanti nella e alla memoria. Tuttavia, nelle pur interessanti celebrazioni, che curiosamente hanno deluso il sempiterno Bruno Vespa, c’è pure il sintomo malinconico del tempo che fugge. Senza inutili nostalgie, approfittiamo delle ricorrenze liberandole da ogni retorica. Siano, piuttosto, l’occasione per riflettere sul che fare oggi, utilizzando e riusando la memoria per affrontare con qualche destrezza la contemporaneità. Soprattutto, visto che non è ormai derogabile una nuova riforma, si discuta finalmente non solo di governance (per carità, fondamentale), bensì pure di missioni ed idee. Per non sfigurare rispetto al passato, occorre rinnovare davvero, mettendo al centro la ricerca di professionalità colte e creative. Riscopriamo la radio, non meno capillare dei social e di maggiore duttilità. Nell’età dell’intelligenza artificiale servono cure ed antidoti: la voce, con il calore e la varietà che le sono propri, rimane un prototipo non molto sostituibile.

(Da Il Manifesto)


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