“Vermiglio”, di Maura Delpero, Ita, Fra, Bel, 2024

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Con Giuseppe De Domenico, Marta Scrinzi, Tommaso Ragno, Carlotta Gamba

Un altro di quei film da prendere con le pinze, pena giudizi affrettati e penalizzanti. I modi e i contenuti della messa in scena di una famiglia delle montagne trentine del 1944, pronta ad accogliere un soldato siciliano “sbandato” dopo l’armistizio del 1943, inducono, fin da subito, lo spettatore a pensare, giustamente peraltro, di trovarsi dinnanzi ad uno sbiadito e velleitario “remake” de “L’albero degli zoccoli”, immenso capolavoro di Ermanno Olmi, Palma d’oro a Cannes 1978, come pure di qualche altra grande opera legata al mondo rurale del passato, vedi la “trilogia” di Michelangelo Frammartino. Fortunatamente per il film, accade che la sua autrice, Maura Delpero, accanto a quelle di Olmi inserisce, narrativamente, più tardi, le motivazioni e le forme di un altro capolavoro della storia cinematografica italiana, quel “Padre padrone” dei F.lli Taviani, Palma d’oro a Cannes 1977, che fa virare il racconto della regista trentina verso una analisi comparata del mondo contadino, capace di mettere insieme gli sguardi poetici verso un mondo oramai scomparso, in cui la famiglia patriarcale e la maternità trionfano su tutto, con le ribellioni giovanili e femminili ancora represse, in attesa di scatenarsi negli anni ’60, ma non per questo meno fortemente presenti e destabilizzanti.

Il tutto viene, genialmente, veicolato dentro un racconto che gioca a rimpiattino con la Storia. Adele e Lucia, la madre e la figlia, vivono le loro maternità (tema prediletto della Delpero, vedi il suo interessante e commovente precedente “Maternal”, 2019), in grande contrasto con i loro uomini, siano essi padri o mariti. Sono il simbolo antelitteram di una ribellione che, per il momento, viene vissuta silenziosamente, nel loro intimo, ma che un giorno diventerà manifesta a tutti, in una dimensione politica capace di realizzare materialmente il concetto, assolutamente privato e individuale, di donna libera. Lo stesso processo di acquisizione della libertà che viveva il protagonista maschile del film dei F.lli Taviani, qui ripreso nella figura del fratello di Lucia, che sembra, addirittura, già pronto a mettere fuori quei pugni in tasca di bellocchiana memoria. La maternità per la Delpero, già allora, ottanta anni fa, non era più soltanto la dimensione costrittiva nella quale la società aveva relegato le donne, ma il momento in cui esse, vivendola in prima persona, prendevano piena consapevolezza di sè. Nel pre-finale del film, tutti i componenti della famiglia sono ripresi singolarmente nei loro ambienti quotidiani, dentro una dimensione di solitudine che contrasta con quanto l’inizio comunitario del film ci aveva mostrato. E’ come se la regista trentina avesse voluto contrarre, in un’unica dimensione spazio-temporale, tutta l’evoluzione della famiglia, a partire dagli anni ’40, senza ripudiare quanto di buono essa fino ad allora aveva regalato all’uomo, ma neanche facendosene vincere, accogliendo in pieno quei cambiamenti necessari e fondamentali che oramai la caratterizzano, e dai quali non si potrà mai più tornare indietro, pena la sua disumanità. Cesare, il padre, è, così, l’altra faccia del racconto.

Non è il padrone violento e rozzo dei Taviani, ma, addirittura, il maestro del paesino di Vermiglio, preoccupato di dare una educazione ai suoi figli come ai suoi allievi minorenni e maggiorenni. Ed è nel disegnare questa figura che la Delpero si supera, mettendo insieme la spinta propulsiva al cambiamento, la cultura, dentro un mondo ancora impossibilitato ad accoglierla del tutto. Cesare è un padre che deve scegliere chi mandare a studiare e chi tenere a casa, per mancanza di denaro. Una scelta violenta e impositrice, ancorchè marxianamente spiegata, di cui lo stesso padre è consapevole, e della quale soffre, ma che ha gioco facile imporre in virtù di costumi e abitudini ancora intrisi di prescrizioni e costrizioni. La stanza del padre maestro è messa in scena dalla regista come un mondo a parte rispetto a tutto il resto della casa, strutturata secondo i canoni contadini in cui vivono gli altri componenti della famiglia. Cesare, solo nel suo studio, pensante dinnanzi alla finestra, è il proto intellettuale borghese che vive in profonda solitudine e contraddizione la realtà di un mondo che spinge sempre di più verso il giusto e necessario cambiamento. Dinnanzi alle prime ribellioni familiari (frutto, anche, di una sessualità che chiede prepotentemente di essere liberata), egli mostra uno sguardo vuoto, incerto, perplesso, frutto di una consapevolezza oramai impossibile da disconoscere. La sua è una sorta di resa violenta, di una violenza veicolata solo dalle parole, ma altrettanto intollerabile per chi la subisce. La Delpero racconta, così, le mille contraddizioni in cui la nostra realtà storica si è mossa, cercando di recuperare, nella sua interezza, la memoria di quel mondo antico ormai inevitabilmente anacronistico. Nel fare questo, talvolta, e ripeto soprattutto nella seconda parte, ella regala cinema allo stato puro, ispirandosi ad autori come Dreyer e Bresson, nel suo muoversi attraverso inquadrature fisse e situazioni ai limiti del trascendente (come non pensare a certi momenti di “Au hasard Balthazar”, splendore del grande regista francese).

La scena finale, con Lucia che prende sulle braccia la figlia neonata che prima aveva abbandonato, per rabbia verso un marito troppo facile nei comportamenti, è la sintesi di una evoluzione che non è soltanto sociale, collettiva, ma innanzitutto indirizzata ad una libertà interiore che non dovrà mai compromettersi a causa di altro che non sia la propria coscienza. Lucia ama finalmente la figlia come persona, come soggetto d’amore, non soltanto come risultato di un concepimento comune, certamente condiviso e atteso, ma poi tradito. Dunque, “Vermiglio” è un’opera davvero composita ed impegnativa, che rifugge da facili ed immediate letture, realizzata da un’autrice che ha ancora qualche limite da superare e grandi potenzialità di crescita da mostrarci. Ed, in questo senso, risulta più che meritato il Leone d’argento che la giuria della Mostra del Cinema di Venezia 2024 ha voluto assegnarle.


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