Lidia Menapace: una donna disobbediente

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Abbiamo pensato di dedicare la nostra rubrica mensile di «Dalla parte di Lei» alla figura di Lidia Menapace, di cui ricorre quest’anno il primo centenario della nascita (1924-2020). È un atto di omaggio e di riconoscenza nei confronti di una donna che ha saputo essere “maestra” per molte di noi, che ha saputo essere nel mondo con scelte di campo audaci e spesso controcorrente, senza mai tradire la fedeltà a se stessa e ai valori in cui credeva, incarnandoli nella sua esperienza del fare.

A ricostruirne il profilo di donna impegnata nella vita politica, fin dalla scelta giovanile di staffetta partigiana, è Ileana Montini che le è stata amica fino al suo congedo dalla vita, condividendo con lei molte esperienze.

Ileana Montini è nata a Pola, da genitori romagnoli. Ha studiato giornalismo e sociologia, ha insegnato per un certo periodo alle scuole medie inferiori e superiori, ma ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi alla professione di psicologa psicoterapeutica. Ha collaborato, come giornalista pubblicista, con i quotidiani l’«Avvenire», «Il Manifesto», e con diversi periodici come «École», «Noi Donne», «Effe» e «Reti». Il suo primo libro dal titolo La Bambola rotta, famiglia scuola e chiesa nella formazione dell’identità femminile e maschile esce nel 1975. Ultimi in ordine di tempo: Racconti di vita e di politica (2018) e Lidia Menapace donna del cambiamento (2022) che racconta la sua intensa amicizia con Lidia, pubblicandone anche un fitto carteggio. È stata la ideatrice, alla fine degli anni Ottanta, del Laboratorio psicopedagogico, un progetto nato nell’ambito del femminismo bresciano.

A.C.

 

Lidia Menapace: una donna disobbediente

di Ileana Montini

Lidia Menapace, la partigiana, la democristiana, la femminista, la comunista, la pacifista, la parlamentare….e tanto altro. Lidia Brisca: perché Menapace era il cognome del marito che lei definiva il suo nome d’arte. Ma prima della riforma del Diritto di Famiglia, le mogli “assumevano” il cognome del marito. Come Menapace iniziò quando lasciò Novara nel 1952, la città dove era nata il 3 aprile del 1924, per andare a Bolzano con il marito Eugenio che aveva vinto il concorso per ufficiale sanitario. Eugenio, detto Nene, era un trentino della Val di Non, oltre l’uno e ottanta di altezza a fronte della moglie 1,50. A Bolzano Lidia andò a insegnare al liceo classico.

Aveva studiato all’Università Cattolica di Milano e vi era rimasta come assistente alla cattedra del prof. Mario Apollonio. Nel 1964 fu la prima donna eletta in consiglio provinciale a Bolzano e la prima come assessora alla Sanità. Lidia era stata staffetta partigiana nel novarese con il nome di Bruna .

La incontrai, la prima volta, a Marina di Ravenna nel 1963 a un convegno provinciale del Movimento femminile della Democrazia Cristiana. Ero una giovane iscritta da poco più di un anno e volevo capire tutto e tutto apprendere della politica. Mi affascinò il suo modo di comunicare: la semplicità, la chiarezza, la profondità della sua cultura, la simpatia. La rividi l’anno dopo a Ravenna, sempre a un convegno provinciale e nel luglio a Roma, per il corso nazionale di formazione giovani dirigenti. La sua era tradizionalmente la prima lezione, a cui seguivano quelle di protagonisti della politica o dell’economia. Tina Anselmi, vice delegata nazionale e Gabriella Ceccatelli incaricata nazionale giovani, ci tenevano molto ad averla ogni anno come prima relatrice; e noi giovani l’attendavamo con entusiasmo e affetto.

Già allora girava l’Italia invitata non solo nell’ambito del partito. Faceva parte della corrente della sinistra di Base milanese ed era membro sia del consiglio nazionale del partito che del comitato centrale del M.F., la cui delegata era Franca Falcucci.

Ma sia lei che io come cattoliche seguivamo con attenzione ed entusiasmo il neo dissenso cattolico post conciliare; le prime occupazioni di chiese, la nascita delle prime comunità di base. Anche le nostre letture erano le stesse: Teillard de Chardin, Jacques Maritain, per esempio.

Questo fino al 1968 quando la situazione divenne più complessa  sia in Italka che nel mondo.

Nel 1968 ci furono le elezioni politiche e al Movimento Femminile nazionale riuscimmo a ottenere le candidature di Tina Anselmi alla Camera, nel suo collegio di Treviso-Padova, e di Franca Falcucci al Senato nel collegio trasteverino. Lidia Menapace intanto era stata sospesa dal partito perché aveva partecipato a una tavola rotonda sulla guerra in Vietnam, insieme a un dirigente del PCI, senza informare il segretario provinciale del partito. Erano i tempi della guerra fredda e non erano ammesse partecipazioni a eventi con gli avversari su un piano di parità. Ma forse giocò altro, oltre all’essere donna, come le solite lotte interne tra le correnti per ottenere candidature sicure.

Eravamo una minoranza a sentirci ormai strette nella D.C., ma non sapevamo, guardandoci intorno, se uscire sarebbe stata una scelta con un altro sicuro e accettabile approdo politico.

Lidia Menapace uscì,improvvisamente, il 5 luglio con un lungo documento ufficiale, che un settimanale di destra definì, nel titolone di prima pagina: “Lo strappo maoista di Lidia Menapace”. Il 23 febbraio mi aveva scritto:

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«‘Restare o andarsene,ma dove?’: questa frase mi viene sempre più frequentemente alle orecchie e alle labbra, tanto sono quelli che la pronunciano e tanto anch’io me la ripeto dentro di me». (Lidia Menapace, donna del cambiamento, Gabrielli editori, 2022).

E continuava: «Ho fatto molti tentativi di scrivere in modo equilibrato e chiaro su alcuni argomenti e sono rimasta sempre a metà; la rabbia che ho in corpo non mi permette di scrivere articoli pubblicabili: ho un mezzo articolo sulle candidature cattoliche nelle liste comuniste; un mezzo articolo contro il Papa che riceve Jonhson; un mezzo articolo sulla riforma universitaria; un mezzo articolo sulla dichiarazione della CEI e via a mezzi articoli lasciati lì. Cerco di non lasciarmi prendere dalle prospettive di contestazione globale, di rifiuto totale,ecc.». Tra l’altro, per la prima volta, con suo grande dispiacere e un po’ ingenuamente, venne drasticamente cancellata dal ruolo di prima relatrice al corso nazionale giovani.

Era stata propensa ad attendere quindi, ma poi, forse anche per la delusione della mancata candidatura, non aveva resistito ed era uscita dal partito. Questo interrompere quasi d’impulso, in solitaria, era un aspetto del suo carattere se per qualche motivo non si sentiva più a suo agio. Aveva una forte autostima, ma era pur sempre una donna portatrice di disvalore di genere con il quale interiormente doveva convivere.

Nel 1969, quando riprese l’anno accademico all’università cattolica scoprì che avevano cancellato il suo corso. Non l’avevano informata. Ma in quell’anno dal PCI vennero radiati “gli eretici” Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Luciana Castellina, Lucio Magri e Lidia venne accolta con entusiasmo nel nuovo gruppo politico. Dopo la rivista mensile «Il Manifesto», nacque il quotidiano espressione di una nuova sinistra marxista e gramsciana. E Lidia si trovò, in parità, tra i fondatori. Divenne nel breve tempo una delle firme più prestigiose e amate del quotidiano e gli inviti a parlare si moltiplicarono.

Rossana Rossanda racconta (Le Altre ,Bompiani ,1979), classe 1924 come Lidia, la sua perplessità di fronte alla nuova realtà femminile:

«Venissero dal partito comunista o fossero, soprattutto, le giovani che nelle assemblee del 1968 non erano esistite se non come entusiaste spettatrici, compagne d’una liberazione sessuale energica che non so quanto tutte avessero gradito, sempre seconde o terze o quarte anche se strillavano forte nei cortei. Che quella esplosione della libertà di tutti non liberasse anche loro dovette essere definitivo, penso, per il sospetto che dentro di sé accumularono sulla politica. Qualche anno dopo nasceva il nuovo femminismo. Lo vide Luciana Catellina, lo visse Lidia Menapace, io continuavo ad aggrottare il sopraciglio».

Lidia aderì totalmente, senza riserve, al nuovo femminismo; anche con contributi originali e critiche puntuali. Lo racconterà ancora Rossana Rossanda, perché lei intanto ostinatamente si teneva a distanza dalle femministe, preferendo fare soltanto la donna emancipata. Infatti scrive: «Eravamo, direbbero le femministe, uomini perfetti e i nostri compagni uomini, diciamo così, educati a prenderci sul serio. Forse bisognerebbe intervistarli, su quello che dovettero sentire come un matriarcato. Ma proprio questa potente presenza mi rese di nuovo distratta. Meno lo fu Luciana Castellina, per nulla Lidia Menapace. Ma il risultato fu quel che il Marcuse di allora aveva capito, Senza paragone di più di qualsiasi altra sinistra, e tuttavia fuori segno rispetto a quel che sarebbe stato il femminismo».

Però non era certamente facile per Lidia, cattolica di formazione e appartenente a un’altra coorte di età, allinearsi alle nuove femministe. Infatti mai partecipò ai gruppi di autocoscienza.

Toccava quasi esclusivamente a me e a lei, sulle pagine del «Manifesto» quotidiano, criticare la Chiesa, recuperare in un’altra ottica streghe, ri-valorizzare sante e monache. Io ero uscita dalla DC qualche anno dopo aderendo subito al «Manifesto».

Lidia Menapace è stata una delle massime protagoniste dell’evoluzione dell’UDI (Unione donne italiane). Nata, come il CIF (Centro italiano femmnile), “collaterale” alla DC, l’UDI era collaterale del PCI. Entrambe le associazioni vennero organizzate nel 1944 dopo i Gruppi di Difesa della Donna (1943) unitari. Anche il CIF aveva iniziato già nel 1969 sotto la presidenza di Alda Miceli e della vice Rosa Russo Jervolino, un percorso di cambiamento ed era toccata a me, già in odore di eresia, anche per l’amicizia con Lidia, tenere la prima relazione al gruppo deputato allo studio di un nuovo percorso.

L’UDI non era ben vista dal movimento femminista, sia per il collateralismo al PCI, sia per la posizione favorevole alla linea tradizionale della cosiddetta emancipazione femminile, cioè del perseguimento della parità tra donne e uomini. Nel 1982 con l’XI congresso si interrompeva la pratica politica a fianco del PCI e con la “Carta degli intenti”, l’assemblea nazionale autoconvocata e l’autoproposizione per il ruolo di “garante”, si avviava una nuova fase fortemente voluta da L.M.

Si erano susseguite anche varie elezioni, ma anche con il Pdup Lidia non entrò in Parlamento. Entrò però prima nel Consiglio Comunale di Roma con il sindaco Luigi Petroselli e in seguito in Regione Lazio. Nel 1984 il Pdup-Manifesto si scioglieva e Lucio Magri con Luciana Castellina rientrarono nel PCI. Sembrò che il PCI di Livia Turco candidasse come indipendente L.M., ma, di nuovo, l’occasione venne a mancare con sua grande delusione.

Nel 1987 venne pubblicato il suo  libro Economia politica della differenza sessuale (Ed. Felina). In apertura così si raccontava: «Ora mi vedo-così ridicola e quasi presa per matta ma tollerata a motivo dell’inoffensività personale – esporre al Comitato Centrale del Pdup (li albergavo) la tesi della multipolarità dialettica, di un modello mentale multi verso, di una visione del mondo davvero democratica perché fondata sulle diversità non riducibili e sulle parzialità universali. Un gioco per me affascinante che mi ha addirittura abbacinato per quasi tre anni e, a tal punto, che mi accorsi solo quando era tardi che la strada che il Pdup stava percorrendo era verso la riduzione della complessità». Si lanciava subito in una feroce critica all’economia di mercato proponendo il gratuito come forma di vita, di pensiero e di giudizio antagonista al profitto e al lavoro come merce. Una L.M. politologa da un punto di vista femminista e con tutta la ricchezza della formazione cattolica. Così poteva mettere in evidenza l’«oppressività del ‘gratuito obbligatorio’, sulla forma mercantile della sessualità (anche di scambio, non necessariamente solo nella prostituzione), in quanto non liberata, non espressiva, non autonoma e, infine, sulla difficoltà delle donne, ancora esistente, rispetto ai mercati dei lavori». Concludeva l’introduzione: «È proprio vero che nessuno può liberare altri se non sulle proprie ragioni e, agli sfruttati, il massimo di danno è stato prodotto dal fatto che le strategie, le culture e l’organizzazione politica ‘rappresentativa’ degli sfruttati sono state elaborate da intellettuali che, per collocazione sociale e per cooptazione culturale e scolastica, appartenevano tutti alla classe avversaria. Questa lezione non dovrebbe essere dimenticata dal femminismo e dovrebbe offrire ragione del più duro ‘no’ a qualsiasi forma di suggestione che muova dalla ‘parità’ e dall’emancipazione’ cooptative».

Gli anni a seguire segneranno tappe importanti nell’ultimo decennio del Novecento. La caduta del muro di Berlino, la crisi dei partiti, ma anche delle grandi narrazioni, delle ideologie fondative; delle chiese cristiane con l’avvio del fenomeno della  secolarizzazione.

Candidata da Rifondazione Comunista entrò al Senato nel 2006, ma vi restò soltanto due anni, a causa della caduta del governo in carica. Durante il mandato fu presidente della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito contenuto nei proiettili dei bombardamenti nato sulla Bosnia del 1995 e su Serbia e Kosovo nel 1999, fino al febbraio 2008.

A partire dl 2011 fu attivissima nell’ANPI (Associazione nazionale partigiani d’Italia) fino agli ultimi giorni. Appariva in Tv, in occasione di manifestazioni nazionali, con al collo il fazzoletto distintivo, dietro un grande striscione per la pace che la copriva, lei così piccola, fino al collo.

Si rifiutò, durante la Resistenza, di usare un’arma. E nell’ultimo scorcio della vita in continuità con la sua giovinezza in guerra, parlò sempre di pacifismo inteso come non violenza; o meglio: come proposta culturale, di mutamento delle mentalità.

Ripeteva: «non usiamo il verbo combattere, meglio lottare». E ancora: l’Italia per la Costituzione ripudia la guerra, ma aggiungiamo «via le guerre dal mondo e fuori dalla storia». Fu sua la proposta di una Convenzione permanente di donne contro tutte le guerre.

È stata anche la fondatrice dell’associazione “Rosa Luxemburg” e tra le protagoniste più vivaci del movimento Donne per la pace.

È morta sola, in ospedale, a causa del Covid il 7 dicembre del 2020. Il marito, non c’era già più: deceduto per il 6 febbraio del 2004; aveva otto anni più di lei. Quando non molto tempo dopo ci incontrammo, mi raccontò che, tramortita, si era isolata per un mese, lei così socievole, ma poi aveva ripreso in pieno le attività varie e la vita sui treni.

Gli ultimi libri sono autobiografici: intensi, empatici e sempre di rara finezza stilistica:

Io, partigiana: la mia resistenza (ed. Manni, 2014), Canta il Merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita (Manni, 2014).

A p.136, verso la fine di Canta il merlo sul frumento, scrive: «Aver ripercorso senza rigore, ma addirittura a capriccio il tratto della mia vita fino a qui (e non metto limiti alla provvidenza, secondo un consiglio di Leone XIII) a me ha fatto pensare quanto sia stata fortunata a nascere quando e dove nacqui, sì da poter partecipare nel corso di una sola vita alla resistenza, al Sessantotto, alla crisi del capitalismo. Che noia se invece (so che non si può fare la storia con i se, ma la memoria, il racconto sì) fossi nata durante il feudalesimo magari in un castello per poter dire ‘Perché paggio Fernando mi guardi e non favelli?’ e sentirsi rispondere: ‘Io ti guardo negli occhi che sono tanto belli’ e poi scomparire sotto una montagna di figli e magari morire di parto al dodicesimo pargolo. Oppure, per sfuggire al mio ‘destino’ di donna, solo farmi monaca e persino magari diventare badessa (cioè padraccia)».

 


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