La luce di Singal. Viaggio nel genocidio degli yazidi 

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Ottobre 2014. A casa dei miei, nel piccolo studiolo, c’è una finestra che rimane sempre chiusa e su cui a lungo ho tenuto attaccati fogliacci di appunti e la carta geografica dell’Iraq. Ho iniziato a interessarmene nel 1990, quando ho visto per la prima volta le immagini delle bombe in diretta tv: Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait e George H. W. Bush, a capo di una coalizione di 35 Paesi, era deciso a ristabilire la sovranità del piccolo emirato. All’inizio di quell’estate del 2014, invece, un nuovo gruppo terroristico, lo Stato Islamico – Daesh, secondo l’acronimo arabo – aveva proclamato addirittura un califfato. Aveva invaso pezzi di Siria e di Iraq, indottrinato e reclutato ragazzi, attirato avventurieri da tutto il mondo e messo in fuga mezzo milione di persone.

Il 19 agosto aveva diffuso il video della decapitazione del fotoreporter americano James Foley.

A settembre era toccato al giornalista Steven Sotloff, all’ex ingegnere della Royal Air Force David Cawthorne Haines e poi al cooperante britannico Alan Henning. L’organizzazione di lì a breve avrebbe rivendicato decine di attentati, dallo Yemen all’Afghanistan passando per l’Indonesia e l’Australia, e le stragi in Europa: Parigi, Bruxelles, Berlino, Nizza, Barcellona, Manchester, Londra.

Stava per piovere, quel giorno. Il computer era acceso in solitaria sulla piccola mensola che uso ancora oggi come scrivania e dove c’è spazio solo per una lampada da lettura. Il telefonino giaceva sul tappeto in mezzo alla stanza. Da inizio anno ero senza contratto – niente rinnovo – e ogni giorno leggevo cercando idee nuove, mandavo cv, consultavo annunci e vagliavo contatti per capire come ripartire. Avevo paura di non farcela. Ce l’ho anche oggi, quella paura.

Suona il cellulare. Un numero che inizia col prefisso +964. Rispondo? No. Non voglio parlare con nessuno. Chi mi chiama dall’Iraq? Non conosco questo numero. Meglio evitare. Problema risolto. No, eccolo, ricomincia. Un’altra chiamata. Già tre squilli. Lascio libero l’istinto, prendo il telefono di scatto. «Pronto, chi è?» Fuori ora pioveva, ma le parole che arrivavano erano spezzate dal vento. Era il vento che quel giorno sferzava la montagna di Sinjar – Şingal, in curdo – sul confine siriano, nel nord del Kurdistan iracheno, assaltata dai miliziani dello Stato Islamico. Centinaia di bambini fuggiti lassù da agosto avevano bisogno di vestiti più caldi e di cibo. E chi li difendeva, con mezzi del tutto inadatti, era protagonista di una piccola eroica resistenza. Ghazi Murad Barakat, un ragazzo della mia età tornato a casa dall’Europa, stava combattendo insieme alla sua famiglia e alla gente del suo villaggio, e questo chiedeva, dopo cinque ore di scalata sulle alture: «Fa freddo, mandateci le scarpe per i bambini». Questo libro racconta le conseguenze dell’aver risposto per caso a una telefonata che mi ha cambiato la vita. Otto mesi di chiamate dalla stessa montagna e parecchi articoli dopo, ho potuto organizzare il viaggio di cui leggerete in queste pagine. Il mio primo viaggio in Iraq, per parlare del genocidio della minoranza etnico-religiosa più misteriosa e discriminata della storia del Paese, finita anch’essa in quel pantano impastato dalle mani, dalle mire e dai molti errori dell’Occidente: gli yazidi. Adorano un angelo in forma di pavone, nessuno conosce i loro riti. Anzi, nessuno li conosceva prima che lo Stato Islamico li massacrasse. Sono partita come giornalista, senza esperienze di quel tipo sul campo e senza i mezzi che gli inviati di una testata hanno garantiti, ma soprattutto sono andata a Şingal come persona. Vediamola da vicino, la guerra. Iniziamo da questa. Additiamone, con tutte le forze che ho, l’immensa imbecillità, ho pensato. Sono arrivata il 20 luglio 2015 e ripartita il 10 agosto.

Ho vissuto in una casa insieme a famiglie sfollate e coi soldati al fronte, mi sono finta una ragazza del posto, ho cercato di cancellare ogni forma anche involontaria di preconcetto, ho ascoltato con tutta me stessa. Ho avuto paura, ho pianto, mi sono arrabbiata. Ma non mi sono mai sentita così libera e perfettamente padrona della mia vita, capitana della mia volontà e della mia anima, come raccomanda la poesia di Henley. Questo perché ho capito che quel che succede a migliaia di chilometri dal mio e dal nostro studiolo, o anche dall’altro capo del mondo, è affare di tutti. Non esistono luoghi lontani o gente sconosciuta: siamo tutti la stessa identica umanità. Dentro il mio lavoro, questa consapevolezza ha acceso una luce potentissima. Le pagine che leggerete sono scritte senza troppi artifici perché ho immaginato di portare con me, tenuto per mano o infilato nello zaino, chi con curiosità e benevolenza avrebbe deciso di sfogliarle. Questo è un viaggio che ho ancora addosso. E ogni incontro, pensiero, accadimento, intervista è reale. Per correttezza verso i lettori segnalo solo che il racconto è condensato nell’arco temporale di una settimana e che il capitolo dedicato al tempio di Laliş si riferisce a un viaggio successivo, così come l’incontro con Farida: non c’era stato modo nel 2015, ma quel che viene riportato sarebbe stato identico e dunque tutto è rigorosamente coerente col tempo in cui avvengono i fatti narrati.

Lo troverete anche ingenuo, questo racconto. Sicuro. Non ho nascosto neanche certe figuracce. I grandi inviati forse le nascondono, a me non importa. Dovevo chiudere un cerchio, esattamente nel decennale della massima espansione dello Stato Islamico e del genocidio degli yazidi, gente generosa che mi ha accolta come una figlia, anche nell’emergenza più assoluta. Se non li conoscete ancora, li incontrerete dentro queste pagine. E vi piaceranno, ne sono certa. Ghazi aveva ricevuto il mio numero da un amico che non sapevamo di avere in comune, Ali al Jabiri, un grande artista nato a Baghdad e che non c’è più. Dopo di lui sono stati cruciali Fabio Carminati – responsabile della redazione esteri di Avvenire – e l’ex direttore Marco Tarquinio, che hanno sempre dato grande risalto alla causa di questa minoranza. Anche a quelle di tutti gli ultimi nel mondo. Sono tra i pochi che non smettono di seguire Paesi e storie perché nel frattempo ci sono bombe più fresche e più spettacolari altrove. L’ho sempre fatto anch’io, e in dieci anni non ho mai finito di scrivere di Şingal. Soprattutto di tornarci. «In questi ultimi anni sono scoppiate nuove guerre, come quella tra Ucraina e Russia, che è schifosa. Adesso c’è anche quella in Palestina, e spero per la pace in tutti e due i Paesi. Noi come iracheni le abbiamo viste le guerre, e come yazidi abbiamo visto bene quella che ha fatto il Daesh. Non avevamo mezzi, per noi è stato come difenderci lanciando un sasso nel mare. Ma abbiamo sempre praticato la pace. Non puoi pensare di sederti a mangiare con Dio se hai fatto male a qualcuno o addirittura hai ucciso. Che religione hai? Vogliamo la pace per noi e anche nel resto del mondo» mi ha detto Ghazi alla fine di una lunga chiacchierata in cui gli avevo rivelato di aver scritto questo libro. Questo racconto è per lui e per gli yazidi, che mi hanno mostrato la praticità semplice della pace, dell’amicizia, della grazia. E dell’umanità, che vive e resiste alla stupidità della guerra. Anzi, che sfida a mani nude l’ignavia e l’indifferenza, il grande male di questa epoca.


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