Due anni fa, il 13 settembre, a Teheran veniva arrestata una ragazza di 22 anni che usciva dalla metro, in quanto aveva qualche filo di capelli fuori dall’hijab che la Repubblica Islamica impone dal 1979, anno della vittoria della rivoluzione islamica, alle donne. Due ore dopo, questa ragazza curda che si trovava nella capitale per una visita familiare è stata trasferita in ospedale in coma, dove è deceduta tre giorni dopo, il 16 settembre.
La ragazza si chiamava Mahsa Jina Amini. Un nome gridato nei giorni successivi non solo in Iran ma anche in centinaia di altre città del mondo, diventando la parola in codice di una rivoluzione al femminile iniziata il 17 settembre del 2022, durante la cerimonia di sepoltura che si è tenuta nel cimitero di Aici di Sagghez, la sua città natale. Migliaia e migliaia di persone si recarono con ogni mezzo per dare l’ultimo saluto a Mahsa Jina, dando vita a un movimento ancora vivo con lo slogan “Donna Vita Liberta’”
Durante settimane di manifestazioni in tutto il paese sono stati uccise con spari ad altezza d’uomo almeno 565 persone. Oltre il 12 per cento delle vittime avevano meno di 18 anni. Oltre 20 mila gli arrestati, 47 dei quali furono condannati a morte con l’accusa di Baghi, ossia ribellione contro la Repubblica Islamica. Dieci le sentenze già eseguite e 37 in attesa di esecuzione.
Le morte di Gina Mahsa Amini ha dato vita ad un movimento che pur se in forme diverse continua ancora, così come i morti continuano. Nell’ottobre dell’anno scorso un’altra ragazza di 16 anni che era salita sulla metro di Teheran senza hijab è stata presa a calci dalla cosiddetta polizia morale e è finita in coma. Armita Garavand non è mai uscita dal coma ed è morta tre settimane dopo. Decine sono le ragazze e i ragazzi che durante le manifestazioni che hanno seguito la morte di Mahsa Jina hanno perso la vista. Gli uomini armati del regime, con carabine caricate con cartucce a pallettoni hanno sparato ai giovani, mirando soprattutto agli occhi. Alcuni di loro che hanno perso un occhio sono oggi in Italia per le cure necessarie.
La storia recente delle lotte delle donne iraniane, ed ovviamente anche degli uomini ma soprattutto dei più giovani, si divide in prima e dopo la morte di Mahsa Amini. Come disse Mojgan Eftekhari, la madre di Mahsa Jina nel messaggio al Parlamento Europeo in occasione del Premio Sakharov, assegnato a questa ragazza e al movimento Donna Vita Libertà “il suo nome è diventato un codice per definire lalotta delle donne dall’Iran a tutto il Medio Oriente e anche il resto del mondo”.
Qui bisogna ricordare anche il coraggio di due giornaliste iraniane, ambedue membri onorarie dell’Articolo 21: NiloufarHamedi, che fu la prima a dare la notizia delle morte di Mahsa Jina Amini, e Elahe Mohammadi che si recò a Sagghez per informare il resto dell’Iran sull’ultimo addio a questa ragazza curda. Ambedue furono arrestate e condannate a 12 e 13 anni di carcere con l’accusa di “collaborazione con il nemico” e di“compromette la sicurezza nazionale”. Le due giornaliste dopo oltre un anno di carcere si trovano oggi agli arresti domiciliari.
Molti per non finire in carcere hanno dovuto lasciare il paese, come Maysoon Majidi, un’altra ragazza curda che ha cercato rifugio in Italia. Maysoon che è in Italia a bordo di una delle tante barchette che trasportano chi fugge dal terrore, dalla guerra o dalla fame, è stata arresta il momento che ha messo piede sul suolo italiano, accusata di immigrazione clandestina e si trova ancora oggi in carcere a Reggio e sotto processo con l’accusa di aver collaborato con i trafficanti. Questa donna curda di 28 anni cercava in Italia la libertà, ma si è trovata nell’inferno giudiziario.