Un pasticcio sui pentiti

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Da giorni ormai fa notizia il “pasticcio” di Stato (come lo chiama oggi su Repubblica Lirio Abbate) che colpisce i collaboratori di Giustizia, più noti come “pentiti”.

Sostanzialmente la faccenda sembra una di quelle da rubricare alla voce “maledetta burocrazia”: il “pentito” che nella sua vita precedente è stato per qualche motivo un cattivo pagatore dello Stato, si vede pignorate dal fisco le somme che lo Stato medesimo, attraverso il Ministero dell’Interno, gli elargisce per sostenerlo nella sua seconda vita, quella nella quale ha deciso di saltare il fosso e stare dalla parte giusta.

E’ necessaria una precisazione per continuare: il collaboratore di Giustizia, figura “inventata” nella sua tutela normativa da Giovanni Falcone che ne comprese la centralità nel contrasto alle mafie (organizzazioni per definizione segrete e criminali), va sempre tenuta distinta da quella del testimone di Giustizia. Il collaboratore è il delinquente, spesso mafioso, che per ragioni di opportunità o di coscienza decide di vuotare il sacco, auto accusandosi dei crimini commessi ed accusando sodali, boss e gregari. Il testimone di Giustizia è una persona per bene che ha subito un crimine o lo ha visto commettere e che decide di denunciare. Collaboratore e testimone hanno in comune di essere protetti dallo Stato dalla probabile vendetta di coloro che sono stati denunciati ed hanno in comune buona parte degli strumenti che lo Stato utilizza per favorire il loro “reinserimento” sociale, reso necessario dal fatto che quasi sempre, in ragione della denuncia fatta, queste persone devono cambiare vita, lasciando lavoro, casa, affetti.

Purtroppo l’esperienza insegna che spesso la trappola burocratica di cui oggi si parla facendo riferimento ai “pentiti” scatta anche per i testimoni di giustizia, che vanno in contro a complicatissimi contenziosi con lo Stato che con una mano li ringrazia, li protegge, li usa nei processi e li risarcisce e con l’altra pignora e chiede arretrati, more ed interessi.

Si potrebbe liquidare la questione ricorrendo ad un draconiano “dura lex sed lex”: se questi soggetti nella loro vita “precedente” hanno fatto debiti, quei debiti vanno saldati.

Ma non sarebbe giusto. Per due ordini di motivi: il primo, spesso questi “debiti” sono la conseguenza della situazione che il soggetto ha subito prima della decisione di denunciare e che si sono aggravati durante le fasi, quasi sempre lunghe e travagliate, che lo hanno portato a diventare testimone per l’accusa nei processi e sottoposto a programma di protezione o a speciali misure di protezione. Secondo e più profondo: lo Stato dovrebbe essere in grado di fare un patto serio e credibile con queste persone che, per un motivo o per un altro, affidano la propria vita e quella delle loro famiglie alle Istituzioni, offrendo un aiuto concreto e spesso risolutivo al lavoro della magistratura, sintetizzabile nella frase “Da questo momento siete sotto la nostra protezione, penseremo noi a tutto. Voi pensate a dire tutta la verità!”. Che questi “pasticci” burocratici non facciano che disincentivare la collaborazione con lo Stato, alimentando l’italico adagio “fatti i fatti tuoi che campi 100 anni” è evidente e per questo in questi giorni si sono moltiplicati molto opportunamente gli allarmi (prima su Antimafia 2000, con Cirillo, poi su HuffPost con Musacchio ed oggi su Repubblica con Abbate). Che di fronte a queste situazioni sarebbe necessario un sussulto della Commissione parlamentare Antimafia e del Sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, che ha la delega alla Commissione Centrale (l’organismo che “gestisce” collaboratori e testimoni) pure.

Ma a me resta un dubbio politico inquietante: siamo sicuri che siano soltanto dei “pasticci” burocratici?

Insomma: in un Paese che continua a produrre condoni e norme “scudanti” anche da colpa grave, è possibile che non si riesca a realizzare un meccanismo semplice e sicuro che sollevi i denuncianti da queste situazioni mortificanti che a volte si protraggono per decenni, gravando sulle famiglie fino allo sfinimento? Dieci anni fa, ero presidente del Comitato parlamentare che si occupa di Testimoni e collaboratori di giustizia, chiamai in audizione, su una vicenda specifica, un magistrato che aveva avuto responsabilità di Governo alla fine degli anni 2000: Alfredo Mantovano. Ricordo ancora, con sollievo, che ebbe parole molto chiare e precise su questo tipo di situazione. Non sarebbe male sapere cosa ne pensi oggi.


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