L’Occidente è scosso da una molteplicità di crisi, di cui le guerre che premono alle nostre porte altro non sono che l’esempio più visibile. Un Occidente che non si è mai preoccupato, in nome del principio secondo cui non bisognava “disturbare il manovratore”, di fissare regole chiare e condivise in merito allo strapotere dei meta-stati digitali che governano la nostra quotidianità. E così, il proprietario di uno di essi, Elon Musk, che ha acquistato Twitter trasformandolo in X, trumpiano di fede, ha parlato di recente di “guerra civile inevitabile” a proposito delle tensioni a sfondo razziale che stanno scuotendo la Gran Bretagna. Cosa significa questo? Che il capitalismo ha sbandato, certo. Che posto nelle mani sbagliate, e quelle di Musk indubbiamente lo sono, può addirittura fomentare rivolte violente ed episodi simili alla famigerata “notte dei cristalli” nazista a danno di tutto ciò che apparteneva agli ebrei nella Germania del ’38. Ma significa anche che bisogna ripensare il nostro modo di pensare, di essere e di vivere. Costituisce, dunque, uno sprone a cambiare. Non a rinchiuderci nelle nostre roccaforti assediate, non a tornare a un passato che non può tornare, inseguendo le “retrotopie” di cui parla Bauman in un saggio destinato a diventare un classico, non a inseguire il trumpismo globale sul terreno della regressione, ma a guardare avanti, riscrivendo il paradigma che caratterizza le nostre esistenze. Vale per la politica e, a maggior ragione, per la comunicazione, che dalla politica non è certo avulsa e, anzi, ne costituisce una componente essenziale.
Le parole di Elon Musk devono essere inscritte nel filone di una destra reazionaria che ha deciso di regolare i conti con la modernità a suon di proteste estreme. Non sono diverse dai termini utilizzati da Trump per aizzare la folla, spronando a compiere l’assalto a Capitol Hill che il 6 gennaio 2021 ha rischiato di far deragliare la democrazia americana. E non possiamo stare certo tranquilli, specie in caso di una vittoria di Kamala Harris il prossimo 5 novembre. Trump non è un tipo che accetti l’esito del voto, a meno che non gli sia favorevole, così come non lo accettò, a suo tempo, Bolsonaro in Brasile. È la democrazia stessa a essere messa ormai in discussione, sono le sue fondamenta e i suoi valori non negoziabili, di cui la libertà d’informazione e il diritto dei cittadini a essere informati incarnano i pilastri.
Musk ci conferma, pertanto, che oggi l’impossibile è diventato possibile, l’impensabile certo, l’assurdo reale. Tuttavia, ci suggerisce anche cosa fare per evitare le conseguenze peggiori: una battaglia ferma e intransigente per chiedere che i giganti del digitale, gli Over the top da cui dipendono le nostre comunicazioni e i nostri scambi quotidiani, siano sottoposti a leggi non vessatorie ma neanche eludibili, che gli “spiriti animali” del capitalismo, che hanno generato unicamente disuguaglianza e disaffezione nei confronti della cosa pubblica, siano domati e, soprattutto, che la politica si riappropri dei suoi spazi, delle sue funzioni e del suo ruolo di guida della società, attraverso il protagonismo di una cittadinanza ben educata, ben informata e in grado di distinguere gli statisti dai pifferai. Con meno di questo, l’autoritarismo che vediamo all’opera in paesi come Cina, Russia, Argentina, Iran e altri stati autoritari si salderà con quello che scalda i motori al nostro interno e ci giocheremo le Costituzioni anti-fasciste del dopoguerra. Il pericolo non è mai stato così evidente.
P.S. Dopo il voto americano di novembre, come si comporterà la Silicon Valley? Si dividerà più di quanto già non sia divisa fra liberal e sostenitori del “Make America Great Again”? Anche il digitale è politico e fa politica.
(di Vincenzo Vita e Roberto Bertoni)