Federico Orlando, il nostro presidente

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Sia pur per poco, ho avuto l’onore di conoscere ed essere allievo di Federico Orlando, scelto come presidente al momento della fondazione di Articolo 21 proprio per non caratterizzarsi eccessivamente a sinistra. Serviva, infatti, una figura non solo autorevole ma proveniente da una storia diversa da quella di molte e molti di noi. Una storia liberale, per l’appunto, che lo aveva portato a essere il vice di Montanelli al Giornale e a opporsi, al pari di Indro, alle mire di Berlusconi e dei suoi su un quotidiano che, secondo loro, sarebbe dovuto rimanere indipendente. Non accettavano, infatti, di avere padroni che non fossero i lettori, non avrebbero mai potuto trasformare la loro creatura nell’organo ufficiale di un qualsiasi partito. Erano legati a un’idea nobile del giornalismo e della politica, compatibile, benché diversa, con quella di Giovanni Spadolini, già direttore del Corriere della Sera e presidente del Consiglio, interprete di uno spirito repubblicano di cui purtroppo s’è smarrito il seme, scomparso trent’anni fa a soli sessantanove anni.
Un’idea nobile e ahinoi perduta, dicevamo, calpestata da tanti nell’ultimo trentennio e divenuta ormai desueta. Eppure, di personalità come Orlando ne avvertiamo più che mai il bisogno. Ci mancano, difatti, il suo sguardo acuto sul mondo, la sua capacità di remare in direzione ostinata e contraria, il suo essere un bastian contrario di prim’ordine, il suo pervicace rifiuto di sottomettersi a chicchessia e la sua volontà di costruire un’alternativa concreta al berlusconismo e ai suoi derivati.
Mai avremmo immaginato che a rappresentare Articolo 21 alla sua prima uscita ufficiale ci sarebbero stati due liberali, ma così andò. Era il 23 marzo 2002, Cofferati portò una folla oceanica al Circo Massimo per opporsi all’abolizione dell’articolo 18, poi smantellato da Renzi, e insieme a Federico Orlando c’era, in prima fila, Sergio Lepri, storico direttore dell’ANSA. Non si trattava, infatti, di difendere questo o quel partito, questo o quell’interesse particolare ma la Costituzione, e il partigiano Lepri e il combattente Orlando non si tirarono indietro. Del resto, non avrebbero potuto. Per storia, per biografia e per l’impegno che aveva caratterizzato le loro esistenze, quel giorno non si sarebbero potuti trovare in nessun altro luogo.
Federico è stato con noi per dodici anni, fino a quando si è spento, l’8 agosto 2014, all’età di ottantacinque anni, e in oltre un decennio non ha mai fatto mancare la sua voce. Non si è risparmiato, non ha smesso di lottare, ha scritto articoli su articoli, anche sul quotidiano “Europa” (organo prima della Margherita e poi dell’ala liberal del PD), a sua volta defunto negli anni del renzismo, e ha testimoniato con lucidità il proprio rifiuto verso ogni forma di tirannia.
Lo incontrai un pomeriggio di luglio del 2012, si dimostrò estremamente disponibile e ci confrontammo sulla fase che stavano vivendo, al culmine del montismo. Avevo ventidue anni e quell’incontro mi ha segnato nel profondo.
Quando se ne andò, in suo onore, decidemmo di organizzare una grande cena, perché Federico sosteneva che fosse necessario condividere non solo la scrivania ma anche la tavola. Era un liberale, non un individualista. Credeva nelle persone ma, soprattutto, nella collettività.
Ho imparato da lui a unire l’utile e il dilettevole, la serietà e le battute, i momenti in cui è necessario metterci l’anima e quelli in cui è doveroso rilassarsi. Mi ha lasciato dentro un senso di gioia, figlio del suo approccio ironico e dissacrante alla vita. Di maestri così non ne nascono più.

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