La disputa elettorale incendia il Venezuela

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Dai seggi elettorali, nella notte scorsa l’accesa disputa tra governo e opposizione sui risultati delle elezioni presidenziali di domenica scorsa ha tracimato violentemente nelle strade,  varcando inoltre le frontiere del paese caraibico per aprire un’inedita crisi politica di livello continentale. Negli scontri tra facinorosi d’entrambe le parti e la polizia intervenuta con l’appoggio di blindati sono stati registrati 2 morti, una ventina di feriti e un imprecisato numero di arrestati. Nel tentativo di venirne a capo, tutti i maggiori governi latinoamericani e quello degli Stati Uniti, parliamo dunque di forze politiche diverse e anche di segno diametralmente opposto, hanno chiesto di documentare con precisione l’asserita vittoria che confermerebbe Nicolas Maduro (61) al vertice dello stato. Ma le autorità di Caracas hanno replicato accusandoli indiscriminatamente di indebite interferenze negli affari interni del Venezuela e chiedendo nella maggior parte dei casi l’immediata interruzione delle relazioni diplomatiche.

I presidenti di Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, Costa Rica, Perù, Panama, Messico, avevano fin dal primo momento dichiarato con parole diverse ma in sostanza univoche, di attendersi da parte delle autorità elettorali venezuelane (e di fatto dal governo) una soluzione della disputa interna attraverso l’inconfutabile documentazione della correttezza con cui è stato svolto il censimento delle schede. Poiché Maduro era stato indicato vincitore con il 51,2% contro il 44,2% del candidato oppositore, Edmundo Gonzalez Urrutia (74), un noto diplomatico in pensione. Ma la leader della coalizione contraria, l’ingegnera industriale Maria Corina Machado (56), impedita a partecipare di persona alla competizione da un controverso provvedimento giudiziario di proscrizione, ha immediatamente denunciato gravissimi brogli. Che non ha potuto finora dimostrare, in quanto ai suoi rappresentanti di lista sarebbe stato impedito fisicamente di presenziare allo scrutinio.

Per una migliore comprensione di quest’ennesima crisi non del tutto imprevista e anzi temuta dalla maggior parte degli osservatori, viene utile tener conto d’un dato tanto noto quanto trascurato. Le stime geologiche collocano nelle faglie dell’Orinoco giacimenti di petrolio tra i maggiori del mondo. Dunque da mezzo secolo al centro d’interessi giganteschi interni e soprattutto internazionali. Dal punto di vista economico, il Venezuela è un’Arabia Saudita mancata. Inflazione e sottoccupazione ne hanno bloccato lo sviluppo. L’incessante emigrazione che negli ultimi anni ha dimezzato la popolazione giovanile (andata ad affollare tutte le più grandi capitali sudamericane e arrivando fin negli Stati Uniti) è solo il più vistoso dei suoi malanni. Tutti precedenti al chavismo, che in 25 anni di potere da Chavez a Maduro li ha visti però soltanto aggravarsi, con un’accelerazione che da difficili li ha resi drammatici.

Il paese si è così di nuovo fratturato progressivamente in irriconciliabili spezzoni: una parte con il populismo autoritario di Maduro, che denuncia l’asfissiante embargo imposto da Washington e distribuisce sussidi di sopravvivenza ai seguaci, senza riuscire a venir fuori dalla recessione economica; un’altra che lo combatte frontalmente, scivolando sempre più verso un neo-liberismo radicale che non esclude il golpe militar. E se ne può individuare ancora una terza in quel 41% degli aventi diritto al voto (2/3 circa dei 29 milioni di abitanti) che non si sono presentati alle urne, perché emigrati in qualche modo e da qualche parte o -si può ragionevolmente presumere- disillusi da un sistema politico ed elettorale che fraudolento o meno tradisce da un quarto di secolo la sua specifica funzione: offrire al paese un’alternanza di potere o quanto meno un convincente ricambio dei gruppi dirigenti.


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