Che le carceri siano piene è cosa nota. Che siano troppo piene anche. Ma il numero continua a salire inesorabilmente: 61.480 le persone detenute a fronte di 51.234 posti teorici ma solo 47.300 reali, secondo gli ultimi dati del Ministero della giustizia.
Ma i numeri ci dicono anche altro. Per esempio, che ci sono circa diecimila persone ristrette che hanno una condanna fino a tre anni per le quali la norma prevede l’accesso diretto alle misure alternative, senza passare per il carcere. La loro presenza dentro ci parla della loro minorità sociale e a volte anche soggettiva: persone fragili, prive di una difesa effettiva, di una casa, di relazioni familiari e sociali significative. Per l’esattezza, 1530 hanno una condanna sotto un anno, 2963 tra uno e due anni e 4024 tra due e tre anni. A loro il carcere non può dare nulla. Troppo poco il tempo perché l’amministrazione riesca anche solo a conoscere queste persone, a individuarne le criticità e le risorse per poter attivare un programma di trattamento. Usciranno così come sono entrate, con in più il marchio indelebile di ex detenuto. La loro detenzione si riduce così a un tempo di vita sottratto alla normalità, spesso destinato a ripetersi in maniera intermittente, attivando o alimentando un percorso al ribasso, senza una prospettiva positiva. E senza in nessun modo assicurare maggiore sicurezza alla collettività.
La loro presenza in carcere ci parla anche dell’assenza del fuori, della società civile e delle istituzioni distratte o troppo prese a cercare nemici veri o presunti per vedere e intercettare le difficoltà in tempo utile per evitare che finiscano nelle maglie del diritto penale, che dovrebbe al contrario intervenire solo laddove altre modalità di intervento abbiano fallito.
In tre anni e mezzo la popolazione detenuta è aumentata di oltre 7mila unità, passando dalle 54.196 presenze del 31 dicembre 2021 alle attuali, con un aumento degli ingressi dalla libertà di oltre il 13% rispetto al mese di giugno del 2023 e di quasi il 21% rispetto allo stesso periodo del 2022. Numeri che si avvicinano pericolosamente al livello per cui nel 2013 l’Italia fu condannata per trattamenti inumani e degradanti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni delle sue carceri, con la cosiddetta sentenza Torreggiani.
Poi c’è il capitolo dei suicidi: 58 le persone che si sono tolte la vita nei primi sette mesi dell’anno. Altre due persone sono morte per le conseguenze di uno sciopero della fame e della sete, sempre mentre erano affidate alla custodia dello Stato. Numeri impressionanti. Mai così alti, neanche nel 2022 quando si è registrato il picco di suicidi in carcere con un totale di 36 morti a luglio e di 85 a fine dicembre.
Sono vite che si consumano giovanissime, ma anche in tarda età: sei di loro avevano meno di 25 anni, mentre l’uomo che i primi di luglio si è ucciso nel carcere di Potenza aveva 83 anni. Sono vite disperate di chi pensa che l’ingresso in carcere sia una via senza ritorno, un buco nero da quale non si esce, una condanna a vita anche quando la pena è finita. Perché il marchio del carcere resta appiccicato addosso, indelebile e feroce e rende la vita anche da libero se possibile ancora più difficile.
Dunque, il carcere oggi è un luogo affollato in cui troppo spesso il tempo scorre inutilmente vuoto, privo di attività e di significato. Quelle otto ore che le norme nazionale e sovranazionale indicano come il minimo da trascorrere fuori dalle celle per svolgere attività significative, si traducono in molti istituti in qualche ora di ‘passeggio’ negli angusti cortili delle sezioni, spesso dei semplici cubi di cemento privi di soffitto chiuso comunque da una rete o negli spazi di socialità anch’essi troppo angusti per consentire a tutte le persone della sezione di accedervi. Il resto del tempo trascorre nelle celle, chiamate dalla norma “camere di pernottamento”, non di rado dei cameroni in cui sono ristrette, otto, dieci anche 14 persone. Mentre nelle celle singole si sta anche in tre, con la terza branda che di giorno è messa sotto il letto per consentire alle persone di muoversi oppure con l’aggiunta di un semplice materasso appoggiato
Il carcere diventa allora il contenitore di un tempo inutilmente sottratto alla vita, che non offre alcuna prospettiva a chi vi entra se non quella di far scorrere i giorni, i mesi, gli anni della pena. Nulla a che fare con quel “tendere alla rieducazione del condannato” affermato dall’articolo 27 della Costituzione.
Sono vite e morti che interpellano con urgenza la società politica chiamata a guardare ai fatti senza ideologie, a considerare il carcere per quello che è e non come un terreno di scontro tra tigoderie opposte, come un territorio di conquista. Ma il recente decreto-legge chiamato “Carcere sicuro” non sembra andare in questa direzione, né il respingimento in blocco degli emendamenti dell’opposizione o il rinvio del disegno di legge Giachetti sulla liberazione anticipata. Sono scelte e azioni che rispondono a una logica diversa. Poco interessata alle persone, ai diritti, alle soluzioni e prima ancora alla conoscenza e alla comprensione dei problemi.
La lettera che i detenuti del carcere di Brescia hanno inviato al Presidente della Repubblica e a tutti i parlamentare bresciani è davvero straziante, per usare le parole del Presidente. Straziante e inacce