Mettere in immagini il pensiero e la vita di uno scrittore è stata da sempre impresa improba, difficile, complicata, quasi impossibile. A maggior ragione, quando si tratta di un narratore come Gesualdo Bufalino, la cui grandezza è legata strettamente all’uso della parola, e alla sua capacità di intrecciarla in maniera sublime ai motivi che la fanno scorrere sulla pagina bianca. Andrea Traina c’ha provato, coraggiosamente, riuscendoci per quanto gli era possibile fare. Stretto in un budget ridotto, che lo ha limitato al mediometraggio, l’autore vittoriese si è mosso all’ interno dei motivi bufaliniani che più gli consentivano di avvicinarsi per immagini alla sua scrittura e al suo modo di leggere l’esistenza umana. L’uso di flashback e flashforward, insieme ad un impianto narrativo dove l’elemento onirico si intreccia sapientemente ai motivi della memoria (una delle massime opere dello scrittore comisano titola “Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria”) ha consentito a Traina di regalarci un film che ha come pregio più grande quello di saper mantenere costante la tensione narrativa che accompagna lo spettatore, immerso in una sorta di thriller dell’anima, verso i motivi più reconditi dell’universo dello scrittore siciliano. La scoperta delle foto, che lo porteranno all’ esordio editoriale, è l’occasione per fare emergere il rapporto con il tempo, visto come tragico limite e insieme generoso disvelatore del valore dell’attimo incantatore che vale più di una intera vita. E questo ritrovamento avviene nella soffitta di una antica villa abbandonata che tanto ricorda l’antro platonico quanto gli spettrali approdi dello “Stalker” tarkovskiano. Altrettanto rappresentativi del Bufalino narratore sono per Traina gli inquietanti intrecci di nomi e avvenimenti che assoggettano l’uomo ad una sorta di dominio del destino che qualcuno si diverte a dipanare per noi, lasciandoci intuire qualcosa di cui mai avremo pienamente contezza. Così è per il giovane amico di Gesualdo, Salvatore, che ricollega nome e cognome della signora coinvolta nell’incidente stradale che porterà alla morte Bufalino, interpretato da un pregevole Gaetano Aronica, con quelli omonimi della bambina presente nelle foto storiche da cui tutto prese inizio. Nascita e morte di uno scrittore sotto il segno di una identica parola, a conferma di una magia o di una malia difficili da spiegare ma presente come una certezza con cui fare i conti, inevitabilmente.
E la cinefilia di Traina mette in scena, magicamente, ed al momento giusto, grazie anche all’apporto prezioso dello scenografo Peppe Busacca, la bambina della foto che tanto rimanda a quella del felliniano ” Toby Dammitt”, anche lì simbolo innocente e inquietante di una morte preannunciata e imminente. Così come lo stesso Salvatore, figura chiave del film, interpretato da un efficace Giovanni Arezzo, inseguirà lo scrittore resuscitato, come la protagonista dell’ “Ordet” di Dreyer, in una verdeggiante campagna, dove lo scrittore dall’italiano aulico, gli chiederà in dialetto, la lingua dei poveri di Pasolini, l’unico linguaggio capace di esprimere l’empatia più grande, di dare seguito al suo intuito. Il rapporto di Bufalino con la madre e la moglie sono appena accennati, così come tanto altro, da Traina, costretto in un minutaggio che non gli consente di ampliare un’opera da lui molto sentita, e che regala allo spettatore momenti davvero alti, che per contrasto fanno sentire la parola fine come fin troppo anticipata. Il cinema è, purtroppo, un’arte costosa, e dispiace per chi sarebbe in grado di regalarci visioni che vanno oltre l’ovvio del solito e milionario biopic televisivo.