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Il giudice Vincenzo Geraci non fu diffamato da Giacalone. In Appello ricostruito il contenuto esatto dell’articolo

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L’articolo sul giudice Geraci e sul voto al Csm relativo a Giovanni Falcone non è stato diffamante, ma ha riferito elementi storici male interpretati dal Tribunale di Perugia e quindi riformati in secondo grado. La Corte d’Appello di Perugia ha infatti rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta da Vincenzo Geraci nei confronti di SPA Editoriale Il Fatto e Giacalone Gaspare detto Rino. All’esito di tale valutazione  Vincenzo Geraci è stato condannato “al pagamento delle spese di lite del primo grado di giudizio in favore di SPA Editoriale Il Fatto e Giacalone Gaspare detto Rino, che si liquidano in € 5635,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e Cap come per legge”; vi è poi la condanna di Vincenzo Geraci “al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio in favore di SPA Editoriale Il Fatto e Giacalone Gaspare detto Rino,, che si liquidano in € 9991,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15%, IVA e Cap come per legge”. Si chiude così un capitolo paradossale che ancora una volta mete in evidenza le palesi difficoltà nel raccontare la cronaca giudiziaria in Italia.
L’articolo oggetto di richiesta di risarcimento danni in sede civile per diffamazione a mezzo stampa era stato pubblicato dal Fatto il 22.5.2012 sotto il titolo “Quando il CSM bocciò Falcone: il verbale”. Nella richiesta risarcitoria il giudice Geraci sosteneva che fosse stata diffamante la parte in cui l’autore scriveva: «Vincenzo Geraci (il “giuda” nelle parole di Paolo Borsellino durante il famoso dibattito alla biblioteca di Palermo, dopo la strage di Capaci)…».
Ecco cosa disse Borsellino in quel dibattito: “…si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Mele”. In primo grado il Tribunale aveva condannato Giacalone e Il Fatto, sostenendo che nel discorso di Borsellino non c’era stata alcuna affermazione diretta su Geraci. Invece i giudici di Appello hanno correttamente ricostruito che l’articolo de Il Fatto non attribuiva testuali parole bensì vi faceva solo riferimento. “La notizia, quindi, data dall’articolo e, nello specifico, dalla frase sopra richiamata, non consisteva nel fatto che Paolo Borsellino si fosse rivolto a Vincenzo Geraci con l’appellativo di ‘giuda’, quanto piuttosto che era a Geraci che Borsellino intendeva riferirsi parlando di “qualche giuda” durante il famoso dibattito alla biblioteca di Palermo”, si legge nel verdetto di Appello.

E circa il ruolo di Geraci la sentenza riporta, tra l’altro, quanto dichiarato dall’unico testimone sentito in questo procedimento contro il giornalista Rino Giacalone, ossia un altro magistrato: “Appare opportuno, in primo luogo, chiarire che l’unica testimonianza assunta nel presente procedimento è stata quella di Luciano Costantini, magistrato che ha esercitato le funzioni di sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Marsala ed è stato collega di Paolo Borsellino. Il dr. Luciano Costantini, sentito come testimone all’udienza del 26 Febbraio 2020, ha dichiarato : ‘Ricordo di avere partecipato ad un incontro di saluto organizzato in occasione del trasferimento del dr. Borsellino dalla procura di Marsala alla procura di Palermo; nel corso di questo incontro Paolo Borsellino disse pubblicamente che quando era stato trasferito alla procura di Marsala qualcuno aveva detto che aveva ottenuto la desiderata “procura al mare” ma che lui il mare in tutto il tempo che era stato a Marsala lo aveva visto solamente attraverso il prisma dei vetri della macchina blindata. Ricordo che finito l’incontro pubblico, io e altri colleghi seguimmo Borsellino nella sua stanza e qualcuno gli chiese a chi si riferiva, chi era stato a dire che aveva ottenuto la procura al mare. Borsellino rispose che si riferiva a Vincenzo Geraci, il quale si era espresso così secondo quanto riportato nel libro ‘I disarmati’ di Luca Rossi e aggiunse che il giorno della sua visita alla camera ardente di Giovanni Falcone si era sentito tirare la toga. Ricordo che fece il gesto, lo ricordo bene. Borsellino proseguì dicendo che a tirargli la toga era stato Antonino Meli, che lui si era girato e lo aveva visto; Borsellino si riferì allora a Meli utilizzando il termine ‘mischino’ che è una forma compassionevole, e poi aggiunse che lo aveva perdonato, ma precisò che invece non aveva perdonato Vincenzo Geraci e che per questo si era riferito a lui, durante l’incontro alla biblioteca di Palermo, chiamandolo giuda, e che lo aveva fatto con tutto il cuore’”.
Secondo la Corte questa testimonianza è “all’evidenza assolutamente precisa e dettagliata”.
Il riconoscimento della professionalità e della correttezza del lavoro giornalistico hanno richiesto dodici anni di processo.
(Nella foto il giudice Giovanni Falcone)


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