“La terra è bassa”, recita un detto popolare. Vuol dire che si deve stare chini, con la schiena piegata a metà, per coltivarla. Significa che è enorme la fatica di chi bada alle zucchine, ai pomodori, ai meloni che compriamo al mercato. Ecco perché chi possiede la terra lascia ben volentieri che quella fatica, che d’estate è più che sfiancante, la facciano i poveri del mondo. Succede da sempre e capita ovunque, a ogni latitudine.
Capita in Italia, dove le decantate “eccellenze” della nostra produzione alimentare sono il frutto del sudore delle migliaia di braccianti che se ne prendono cura. Tra di loro i migranti sono molti: un terzo dei lavoratori agricoli impiegati in Italia viene dall’estero. Qui s’innerva il fenomeno, consolidato in questo comparto, dei numerosissimi lavoratori irregolari: non hanno permesso di soggiorno, sono marchiati come “clandestini”, sono ricattabili. Poveri, precari, stagionali e nascosti, vengono pagati una miseria: 3-4 euro l’ora, quando va bene. E le giornate estive sono lunghissime, rese ancora peggiori dalla privazione di ogni diritto.
Anche Satnam Singh faceva parte di questa schiera. Faceva, sì, perché è morto a 31 anni, il 17 Giugno scorso. Non è morto di fatica, come pure capita a molti, ma per un incidente sul lavoro: un macchinario gli ha strappato un braccio e gli ha rotto qualche osso. Il suo corpo straziato è stato raccolto da Antonio Lovato, il figlio del titolare dell’azienda; è stato trasportato con un furgone fino all’abitazione del ferito e poi è stato abbandonato lì, in mezzo alla strada. Il braccio staccato? In una cassetta per la frutta, lì accanto. Quarantotto ore dopo Satnam Singh è morto in ospedale, a Roma.
È successo a Borgo Bainsizza, in provincia di Latina, a cinquanta chilometri dalla capitale, dove Satnam Singh e sua moglie, entrambi originari del Punjab, in India, lavoravano clandestinamente in una delle tante aziende dell’Agro Pontino. Anonime macchine da fatica, niente di più.
Solo così si spiegano le dichiarazioni del titolare dell’azienda agricola, subito raccolte dal TG1, sempre pronto a dar voce al padrone di turno: «Non è quello che si dice, quello che si legge sui giornali… Aveva avvisato il lavoratore di non avvicinarsi al mezzo, ma il lavoratore ha fatto di testa sua… una leggerezza, purtroppo. Il dispiacere che c’è, che è morto un ragazzo che purtroppo è morto sul lavoro, che non dovrebbe mai succedere. Una leggerezza che è costata cara a tutti».
Ragioniamo. Il padrone della terra, Renzo Lovato, difende suo figlio. Un riflesso condizionato, quasi pavloviano. Usa parole inappropriate? Sì, è vero. Ma c’è da capirlo: le accuse che si stanno formando intorno al comportamemnto del figlio sono pesantissime: omissione di soccorso, violazione delle disposizioni in materia di lavoro irregolare e omicidio colposo. Forse anche caporalato.
Resta il fatto che nessuno smentisce. Un lavoratore rimane vittima di un infortunio gravissimo e, proprio come si farebbe con una vecchia bicicletta arrugginita, un paio di tenaglie senza più il filo, una scarpa sfondata, lo si getta via: ormai è inservibile. A buttarlo via è il figlio del padrone, che chiude con un atto feroce il cerchio d’acciaio dello sfruttamento.
Un disastro del quale si occupa la magistratura, come è giusto. A noi giornalisti rimane una domanda: perché si è corsi a raccogliere l’opinione del padrone, assimilando le sue pur comprensibili istanze alla sorte disgraziata della sua vittima? La falsa equidistanza costringe troppe schiene a rimanere piegate. E non sui frutti della terra, che – lo abbiamo ricordato – è già bassa di suo.