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Guardando al futuro dopo le Europee

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Appunti veloci su elezioni europee. Se per la prima volta ( in una consultazione nazionale, alle regionali è già successo) vota meno del 50% degli italiani possiamo fare finta di niente? Oppure dietro le astensioni c’è un disagio sociale, un malessere, che andrebbe indagato dai mezzi di informazione? Domande pesanti che non trovano spazio nel dibattito pubblico. La politica spettacolo premia i protagonismi. Così può succedere che Fratelli d’Italia in un anno e mezzo perda 600 mila elettori ma che i talk e il “circo mediatico” ne celebrino la straordinaria vittoria perché in percentuale votanti supera il 28%. C’è del vero nel fatto che i consensi espressi contino più del silenzio ma le percentuali sono sempre illusionistiche. C’è un paese reale che rischia di sparire. Chi fa informazione deve occuparsene o lo deve dare definitivamente per perso?

Tornando a quel 50% che è andato alle urne la somma di chi ha votato per i partiti oggi al governo supera di poco gli 11 milioni. Altrettanti italiani hanno sostenuto invece liste legate a “formazioni di opposizione” con degli spostamenti al loro interno non di poco conto. Ma quello che conta di più è che sul totale della popolazione (46 milioni di aventi diritto) a sostenere esplicitamente il governo Meloni c’è di fatto il 24% degli italiani. Ti possono obiettare che sono la minoranza più coesa, ma sempre di meno di uno su quattro si tratta. Si pensi ai prossimi appuntamenti referendari. Che cosa potrà accadere? Diciamo che non sarà una “scampagnata” per chi vuole stravolgere la Costituzione malgrado il prevedibile coro mediatico a favore di chi “pilota la nazione”.

Secondo punto. La maggioranza degli opinionisti di talk e giornali e dei loro direttori ( non tutti, per fortuna) nutre un naturale riflesso “tecnocratico”. I nemici del progresso e della stabilità economica del paese sarebbero i populisti (qualsiasi cosa copra questa parola) mentre andrebbero sostenuti i competenti, quelli che affrontano i problemi senza pregiudizi ideologici come dei manager che non badano al favore popolare. Una parte del mondo giornalistico è affascinata (per varie ragioni, non certo ultimi gli input che arrivano da proprietà e aziende) da queste figure. Il problema è che molti dei presunti competenti si sono solo autoproclamati tali, alla prova dei fatti hanno deluso come o più degli altri. Se usassimo parole precise invece che vaghe definizioni non sarebbe meglio? Penso a xenofobia, perché è scomparsa dal vocabolario? Così come scomparse parole come sfruttamento, conflitto sociale, capitalismo. C’è un bisogno di concretezza. Altro che “politicamente corretto” abbiamo necessità di usare un maggior numero di parole, non di meno. Viviamo tempi tormentati. Abbiamo le guerre alle porte di casa, la spesa militare destinata a sottrarre risorse a quella sociale. Abbiamo il lavoro povero ( e pericoloso) in misura che non si riscontra in altri paesi d’Europa. Chi ha avuto la capacità di farsi sentire su questi temi concreti, di svolgere una campagna elettorale efficace e innovativa ( non stanca o improvvisata) è stato premiato dal voto. Ci sono segnali incoraggianti, non vanno enfatizzati retoricamente, ma ci sono.

Al di là di quanto faranno i media ( i canali oggi per fortuna sono molteplici) contano pure i messaggi, la loro robustezza, la credibilità di chi li avanza. E parlare di rischi autoritari, dell’importanza di contrastare una visione politica “reazionaria” ( nel senso che propone il passato come nostro futuro) non è certo una fuga in avanti se lo fai con serietà e argomenti solidi. Pensiamoci bene. Se la gente oggi non va a votare quale può essere il punto di approdo? O una rinnovata partecipazione che parta dal basso o la persona sola al comando. In molti cominciano a capirlo. E’ già un primo passo.


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