BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

“Il caso di Alessandro e Maria”, di Gaber-Luporini

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Teatro Casamatta-Spazio Creativo, Ragusa.
Con Massimo Leggio, Evelyn Famà.
Musiche originali di Adriano Murania.
Regia di Carlo Ferreri

Alessandro e Maria si ritrovano a distanza di anni dalla fine della loro storia d’amore. Confinati in un’isolata casa di campagna, la loro reunion sarà una resa dei conti che non vedrà nè vincitori nè vinti. Liberamente ispirata a “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler, la pièce, del 1982, di Gaber e Luporini, pesca, in realtà, a piene mani in tutta l’opera del grande drammaturgo viennese. Al centro della scena c’è, infatti, la guerra dei sessi, l’inevitabilità della solitudine, l’incomunicabilità come condizione ineludibile e contraddittoria rispetto al bisogno umano dell’altro. Il regista Carlo Ferreri inserisce, genialmente, in un testo già così denso di dialoghi e di tensioni relazionali, un ritmo feroce e cannibalico che fa tornare in mente il Roman Polanski di “Carnage” e “Venere in pelliccia”. Ma a dominare incontrastato sulla poetica della narrazione è il riferimento costante al cinema dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni. Alessandro, uno straordinario Massimo Leggio, è un borghese disincantato, scisso da se stesso e dalla realtà che lo circonda, lontano da ogni speranza sulle sorti dell’essere umano, e che “vomita” questa sua rabbia addosso ad una donna, Maria, la strepitosa Evelyn Famà, una delle attrici più complete del panorama teatrale siciliano, che regge furiosamente il confronto con l’ex amante, uscendone comunque a pezzi. Il confronto tra i due è simile a quello tra due pugili che chiudono in parità il loro match non perchè la quantità di pugni è stata uguale ma perchè il confronto, alla fine dolorosamente “inutile”, ha visto entrambi i contendenti esibire le loro valide ragioni. E’ il rapporto diadico a frantumarsi, a non potersi ricomporre per mancanza di spazi utili da riempire. L’amore per Gaber-Luporini, come per Schnitzler, Cecov, Antonioni, Polanski, ma anche per il Bertolucci di “Ultimo tango a Parigi”, è una grande tentazione a cui ci arrendiamo pagandone le inevitabili conseguenze. Siamo tutti soli dentro la nostra pelle, diceva qualcuno, e questa seduta psicanalitica, autogestita da due creature che hanno bisogno l’uno dell’altro, alla fine fallisce perchè il rimedio al male, la disumana solitudine, è peggiore del male stesso. Ci sono verità impossibili da dirsi, “sogni” rivelatori che freudianamente dobbiamo tenere nascosti, desideri inconfessati e inconfessabili che ci distanziano fino ad allontanarci definitivamente. Questo è l’uomo, un essere irrisolto con la giusta e insieme fallace pretesa di superare questa irrisolutezza, a costo di pagarne a caro prezzo tutte le conseguenze. La messinscena di Carlo Ferreri è attenta ad evidenziare, come nel teatro espressionista, il non verbale, fatto di pause, di attese, di sguardi nel vuoto, o che si incrociano nel tentativo di dirsi qualcosa che non sarà mai e poi mai pari alle nostre aspettative.

Grande testo, grande regia, grandi interpretazioni, che il numeroso e appassionato pubblico alla fine ha salutato con una interminabile standing ovation che sembrava non voler finire mai.


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