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Fela Kuti incarna la lotta per il panafricanismo, questo film è per lui. Intervista a Renata Di Leone

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Fela Kuti incarna la lotta per il panafricanismo, questo film è per lui.

Intervista a Renata Di Leone, cosceneggiatrice del film Fela, il mio Dio vivente, di Daniele Vicari, tratto dall’archivio e dal diario di Michele Avantario.

Un film diverso dagli altri si aggira per l’Italia: Fela, il mio Dio vivente. Un progetto di Michele Avantario sulla vita del rivoluzionario padre dell’afrobeat Fela Kuti, per la regia di Daniele Vicari. Un film da far girare la testa. Una produzione massiccia: Fabrique Entertainment, Luce Cinecittà, Rai Cinema; in coproduzione con Lokafilm e Grasshopper; con il contributo del Ministero della Cultura e col sostegno della Regione Lazio; prodotto da Renata Di Leone, Giovanni Capalbo, Federico Poillucci e Clare Spencer; realizzato con i più fidati collaboratori di Vicari, da Gherardo Gossi per la fotografia a Teho Teardo per la musica. Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, in gara per i David di Donatello e i Nastri d’Argento, è nelle sale di tutta Italia. Qui, abbiamo ascoltato la cosceneggiatrice Renata di Leone, detentrice dell’archivio di Michele Avantario su Fela Kuti (tra i più cospicui al mondo), convinta seguace dell’uomo politico e del musicista, vedova di Avantario e moglie di Giovanni Capalbo, produttore esecutivo del film.

Renata Di Leone è una donna di carattere, etiope di padre calabrese, arriva a Roma con la sua famiglia nel 1977, dopo il colpo di Stato nel suo Paese. Ragazza assennata, ma a suo modo anche ribelle, ama la musica; lavora nei maggiori locali di Roma negli anni ’80. Frequenta il Makumba, l’unico locale dove si suona esclusivamente musica afro; conosce la musica della sua terra, difende con forza le sue origini e la sua cultura. Negli stessi luoghi di Renata, lavora Michele Avantario: un film maker di successo, consulente musicale di numerose manifestazioni italiane, eclettico video artista. Michele è un seguace senza pari in Italia di Fela Kuti: lo ascolta, lo contatta, lo porta in Italia per far conoscere la sua rivoluzionaria cifra musicale e politica, lo segue a Kalakuta (la comune fondata da Fela in Nigeria), fa avanti e indietro tra Italia e Africa, per vent’anni. In ogni occasione d’incontro e di viaggio, filma tutto il mondo di Fela, raccoglie oltre 40 ore di materiale audiovisivo. Ha un codice etico che persegue fino alla morte: fare un film sul suo Dio vivente.

Inevitabilmente, Renata e Michele s’innamorano e si sposano nel 2003 e lei osserva con rispetto il cammino del suo compagno e anche il “mal d‘Africa” che lo affligge quand’è in Italia; accetta tutta la devozione e l’affetto che Michele e Fela condividono l’uno per l’altro. Ma è anche stupita da questo legame tanto profondo quanto impalpabile tra il marito pugliese, italianissimo e il guru della lotta africana anticolonialista combattuta sul proprio corpo e condivisa col suo popolo e nel mondo. Michele continua a raccogliere materiale, mentre vengono girati due documentari su Fela Kuti (Music is the Weapon e Finding Fela), ma nessuno ha lo sguardo intimo sul mondo privato di Fela che lui vuole dare al pubblico. Il progetto del film salta diverse volte, fino a che il grande musicista muore nel 1997, fino a che muore anche Michele nel 2003.

Renata, lei, resta, con un macigno di dolore e con un materiale umano, fotografico, visivo, scritto senza precedenti. Lo rifiuta per anni, lo nasconde alla vista, ma resta. Qualcosa si muove in lei intorno al 2013. Nel 2019 l’intero archivio di Avantario viene digitalizzato e da quel momento Renata si rende conto che i preziosi documenti devono diventare patrimonio comune e decide di dare vita all’archivio di Michele. L’idea c’è, manca tutto il resto. Nel frattempo, sposa l’attore e neo produttore Giovanni Capalbo. Insieme, vorrebbero realizzare il film che Michele non ha fatto. Nel 2020, come avviene nella grande letteratura dalla tragedia greca in poi, entra in gioco un deus ex machina: Daniele Vicari. Perché lui? Banalmente, perché Vicari viene avvicinato da Renata e Giovanni come l’unico regista che possa realizzare il film su Fela Kuti che Avantario non è riuscito a portare a termine. Più nello specifico, perché Vicari firma soltanto regie che siano difficili, coinvolgenti (da Velocità Massima a Diaz, fino a Orlando). E così, Vicari vede le prime 13 ore che Renata gli manda dopo una sua scrematura del materiale generale; assieme ad alcune tra le 400 fotografie di Michele e Fela, gli manda libri, biografie, la sceneggiatura e il diario di Michele. Vicari – che è un regista sfidante e consapevole – accetta l’idea, continua a studiare e vedere quanto più materiale possibile: Fela Kuti è un musicista, un leader politico che ama, Michele Avantario è un artista che impara a conoscere attraverso i suoi lavori e suoi diari. Ma come realizzare il film su Fela Kuti, attraverso gli occhi di Michele Avantario, entrambi visti da lui stesso? Come un vero deus ex machina che si rispetti, Vicari trova la soluzione: rendere semplice ciò che è complicato e mettere la parola fine a un’epopea. Sceglie qualcosa di simile a quella che nell’arte e nel cinema viene definita “mise en abyme”: la messa in abisso dell’immagine che si moltiplica all’infinito, in un unico contenitore e realizza un film nel film. Lo fa mettendosi di lato, ma anche sopra le vulnerabilità di chi è troppo coinvolto: Vicari si mette al fianco di Renata (che firma la sceneggiatura assieme a lui e a Greta Scicchitano) con rispetto e sensibilità, ma si mette anche a capo della regia con determinazione e fiducia. In 90 minuti, il film riesce a raccontare Michele che racconta Fela Kuti, entrambi visti con gli occhi discreti e personalissimi di Vicari, per bocca di Claudio Santamaria, voce narrante del diario di Avantario. Un caleidoscopio d’immagini in un solo film. Cosa ne esce fuori? Questo lo dirà il pubblico, soprattutto quello dei giovani che speriamo vedano il film per scoprire che la loro musica viene (in gran parte) da quell’Africa beat. Qui bisogna dire con chiarezza che Daniele Vicari si è assunto la responsabilità di dare vita a un archivio enorme girato da qualcun altro, realizzando il film che nessuno era riuscito a fare. È un atto di coraggio, umiltà e capacità decisionale; un omaggio e un gesto d’amore per nulla scontati, un gioco raffinato di regia, montaggio, immagini, suoni, colori. Il film è commovente e ci sembra somigli a Fela, a Michele e a Daniele: una danza piena di vita, spiritualità, fatica, militanza politica. Una domanda che resta è se l’anima di Avantario, che ha dentro di sé l’anima di Kuti, sia entrate nell’anima Vicari per fargli realizzare questa fantasmagoria. È un’idea, un’immagine che ci piace. Noi abbiamo ascoltato la donna che ha realizzato un sogno.

Intervista a Renata Di Leone

Chi era Michele Avantario?
Michele era un uomo pieno di vita, amante della musica, del mondo, del cinema di cui s’innamora quando torna a Roma dall’India, grazie all’incontro con Adriano Aprà (critico cinematografico, fondatore di festival e collane editoriali, intellettuale fuori norma. Per fare capire l’affetto tra Aprà e Avantario, basterà ricordare qui che Michele battezzerà poi il figlio di Aprà e Stefania Parigi, Agostino, ndr.).

A un certo punto, Michele perde la testa per Fela Kuti e tra loro scoppia un’empatia che va oltre la stima e l’affetto: Kuti diventa progressivamente il Dio vivente di Michele (come dichiara lui stesso di fronte a quasi due milioni di persone, al funerale di Fela).
Michele era amante della musica africana da tempo, era consulente musicale, conosceva benissimo la musica jazz e Fela Kuti era già nei primi anni ’80 uno tra i suoi musicisti preferiti. Negli anni ’80, dicevo, Michele era consulente del Festival di Salso Maggiore ed è qui che conosce il manager di Fela, in Italia per presentare uno tra i primi documentari. Negli anni successivi, poi, Michele frequenta molto il Makumba, il principale locale di musica afro a Roma, e la sua passione per il mondo afro cresce al punto che, consulente anche per l’Estate romana del 1984, decise di portare a Roma Kuti per un concerto.

Procediamo per gradi. Tra un viaggio e l’altro verso la Nigeria, mentre si consolida un sodalizio profondo tra l’italiano biondo e il nigeriano nero, Michele incontra lei. Come, dove?
Ci siamo conosciuti di notte, io lavoravo nei locali notturni, mi vide e, dopo qualche giorno, mi invitò a casa sua per un provino Rai. Era il 1994, eravamo molto simili nelle frequentazioni, nei gusti musicali, nelle passioni. Nacque presto una grande amicizia che si trasformò e ci sposammo.

E lei, da dove entrava nella vita di Michela?
Io sono nata in Etiopia, ma nel 1977 siamo scappati dopo il Colpo di Stato e siamo venuti a Roma, perché mio padre aveva origini italiane, calabresi. Siamo arrivati qui con i miei 7 fratelli.

Si può dire che l’incontro tra Fela e Michele si leghi anche al legame tra lei e Michele?
Senz’altro. Ma ho assorbito lentamente il sodalizio tra i due. Per la verità, anche io ero una conoscitrice di musica e la cosa che mi colpì quando conobbi Michele fu la sua competenza musicale enciclopedica. Io frequentavo i locali, facevo una vita molto notturna, ero già truccatrice di cinema con ampie soddisfazioni, ma Michele aveva come un fuoco dentro di sé inquieto e vitale. Fu lui a spingermi a fare la DJ per i locali romani e lavorai molto, facendo ascoltare ovunque la musica afro beat di Fela Kuti. Ho detto che ho assorbito lentamente l’amicizia tra i due, perché è stato nel 1996 che ho davvero assistito ai loro incontri: nell’estate di quell’anno Michele e io andammo insieme in Nigeria, a trovare Fela ed è stato lì che l’ho conosciuto. Siamo rimasti a Kalakuta, la comune fondata da Fela e nella quale viveva, due settimane e sono stata accolta con grande amore dalle sue 27 mogli. Il suo primo concerto che vidi lì mi segnò profondamente, nonostante fossi abituata ai concerti, anche di grandissimi artisti. Ma non ebbi mai conversazioni private con lui: era sempre circondato da mogli, figli, amici. Ricordo due incontri, nella sua stanza, con Michele presente. Abbiamo parlato delle mie origini, dell’Etiopia, della fuga in Italia, di quanto fosse necessario combattere per l’Africa. Io parlavo pochissimo e osservavo tanto, è una mia caratteristica. Cercavo di capire perché tra queste due persone si fosse instaurato un rapporto tanto profondo: Fela aveva un’energia spirituale che andava al di là del carisma, c’era qualcosa in lui davvero diverso da chiunque avessi incontrato prima. Un’energia positiva, che non voglio enfatizzare, ma era inevitabile restare incantati da quella forza unica, tutta concentrata in un corpo solo, magro, nervoso, pieno di cicatrici per le torture subite. Io credo di averla respinta un po’ l’energia di Fela, ne ero quasi impaurita. Tornando a Roma, ho voluto conoscere tutto su di lui, ma con più distacco rispetto a Michele. Ho letto molti libri, ascoltato tutto l’ascoltabile e osservavo l’ossessione di Michele per Fela. Perché era un’ossessione che io, da africana, non capivo: il loro rapporto era abbastanza equilibrato, Michele anche aveva un carisma non comune quindi non c’era mai una sudditanza da parte sua verso Fela, ma indubbiamente ne era ossessionato. Aveva il vero “mal d’Africa”, una nostalgia terribile e appena poteva tornava da Fela. Un Natale mi lasciò a Roma e corse in Nigeria: per me il Natale è una grande festa e voglio trascorrerlo con la mia famiglia. Io sono religiosa, sono cattolica, ho una spiritualità chiara. È forse per questo che ho sempre rispettato la ricerca di qualcosa di superiore da parte di Michele: non era religioso e l’animismo di Fela gli colmava un’inquietudine che forse si stava placando con la sua vicinanza. L’ho rispettato. Nella nostra casa a Roma, conservava il vino di palma che Fela usava durante i riti nel suo santuario, aveva creato una sorta di altare con le foto, i dischi, i libri su Fela. Io continuavo a non interferire. Per me, il carisma ipnotico di Fela, oltre che nella musica, stava nella sua lotta politica per la liberazione dell’Africa dall’oppressione colonialista e post colonialista dell’Occidente. Era per me il filosofo, il leader politico, il combattente che viveva nel quartiere più malfamato di Lagos, in Nigeria, per stare tra i poveri. Poteva vivere da miliardario e invece viveva tra i dimenticati del suo quartiere. Credo anche che Michele abbia colto Fela come la possibilità di un riscatto familiare: aveva lasciato la Puglia e la sua famiglia a 17 anni per girare il mondo, ha rinnegato la provincia borghese dalla quale proveniva, non aveva radici. Ha fatto 20 viaggi da Roma alla Nigeria per stare il più possibile con Fela. Kalakuta era il mondo libero di cui Michele aveva bisogno.

Come descriverebbe il rapporto tra Fela e Michele?
Michele era un uomo risoluto, con una gioia di vivere molto forte. Ha perseguito l’idea di fare il film in tutti i modi, fino al sopraggiungere della malattia. Ha scritto la sceneggiatura sul ritrovamento di Black President (il film prodotto e interpretato da Fela negli anni ’70), l’ha fatta girare per il mondo, è andato tante volte in Ghana, dove erano conservate le pellicole di Black President. Tutto questo fermento in Michele era confortato dalla stima che Fela aveva verso di lui: posso testimoniare che Fela aveva scelto Michele come uno tra i pochissimi amici veri. Lo stimava perché Michele aveva una luce positiva che Fela riconobbe e lo fece entrare nella sua intimità, sconosciuta ai più. Lo stesso film su Fela, voglio dire, era secondario rispetto al loro rapporto.

Lei ha mai assistito a un incontro privato tra Fela e Michele?
Ho cucinato per Fela, ricordo in particolare di un’ottima pasta col tonno… Ricordo delle grandi tavolate con le sue mogli, sono ancora molto legata a una delle mogli di Fela e il figlio minore, Seun, venne Roma, a casa nostra, dopo la morte del padre, quindi conservo un rapporto anche con lui. Non ho mai assistito a un dialogo privato tra loro due, ma siamo stati tanto tempo insieme. Soprattutto, ricordo le risate, sia Michele che Fela avevano molto senso dell’umorismo e ridevamo tanto. Credo che la loro sia stata una amicizia molto privata. Era bello vederli insieme.

Cosa l’ha spinta a realizzare questo film?
Michele ha avuto un’agonia lenta e dolorosa. La sua morte mi ha distrutto. Ho trascorso tre anni terribili dopo. Non pensavo più al film. Nel 2005 mi chiamarono dalla BBC per dirmi che sapevano del mio archivio importante su Fela. Quando mi vennero a trovare a Roma, chiesi di lasciarmi in pace e quando andai via dalla casa di Via Venezia nella quale vivevo con Michele, misi tutto il materiale del film e tutti i nostri mobili in un magazzino. Michele aveva girato una quantità di filmati inimmaginabile su Kalakuta, su Fela, sulla sua famiglia, aveva fatto interviste, aveva i concerti di Fela nel mondo. Mi erano rimaste tra le mani oltre 40 ore di lavoro, non le volli vedere per molto tempo. Ma non ero serena. Dopo molti anni, nel 2013, è successo qualcosa di inspiegabile. Credo che Fela e Michele mi abbiano guidato verso la necessità di darmi da fare per realizzare il film. Telefonai a Seun Kuti senza un motivo preciso e lui disse che lo avevo chiamato in un momento cruciale: negli Stati Uniti stavano preparando un film sul padre. Seun mi mise subito in contatto con l’ultimo manager di Fela. Dopo una settimana, il produttore del documentario americano era a casa mia. Vide quattro ore del materiale e fu entusiasta, voleva che collaborassi con loro. Io ero incerta e mi affidai a un importante avvocato americano che potesse tutelarmi negli accordi per questo lavoro. C’era qualcosa in me (oserei dire qualcuno, Michele e Fela), che non mi dava la sicurezza che quel film fosse la strada giusta. Andò a finire che concessi soltanto sette minuti del girato di Michele per quel lavoro. Io volevo realizzare un prodotto più intimo, universale certamente, ma che conservasse quell’intimità profonda che c’era tra Michele e Fela. Nel 2019 c’è un’altra svolta: una videoinstallazione sul materiale di Michele, a Berlino. La Fondazione tedesca HKW che mi invitò, fece digitalizzare per la mostra, sotto mia richiesta, tutto il repertorio di Michele su Fela: le 40 ore di materiale, finalmente, erano tutte insieme e ci si poteva lavorare su. È stato in quel momento che mi sono davvero resa conta che bisognava realizzare il film, ma non sapevo a chi rivolgermi. Giovanni Capalbo, il mio attuale marito, aveva aperto la sua casa di produzione nel 2014, non c’erano mezzi sufficienti per fare alcunché. Intanto, studiavo il materiale, lo scalettavo, lo suddividevo per argomenti, imparavo a conoscerne ogni secondo. Piangevo mentre guardavo i filmati, elaboravo il lutto per la morte di Michele, ho deciso di fare questo film.

Che tipo di donna sei?
Credo di essere una donna dolce, timida, leale, permalosa, forte. Volevo far vedere a tutti il sogno di Michele su Fela e ora sono contenta del lavoro con Vicari. Nel 2019 Giovanni aveva prodotto il suo primo film, alla fine del quale gli dissi chiaramente che avevo intenzione di fare questo documentario. Mi rispose che avrebbe cercato il modo e i mezzi per realizzarlo, sapeva tutto del mio amore con Michele, conosceva il materiale. Per cominciare, ha montato il progetto finanziario, senza il quale non si poteva iniziare nulla. Sono certa che Michele, da quel momento in poi, ci ha aiutato accelerando tutti i passeggi che, sin qui, erano stati farraginosi: vinciamo il progetto con il MIC, entrano in coproduzione l’Istituto Luce e la Rai, evidentemente grazie al nome di Daniele Vicari.

Perché avete chiesto a Daniele Vicari di fare la regia del film?
Per il suo percorso artistico, per la sua militanza, per la sua serietà. Prima di Daniele, avevo personalmente contattato un regista nigeriano, suggeritomi dal figlio di Fela. Mi sembrava giusto che fosse un africano, un nigeriano a fare questo lavoro. Nel 2019 il regista venne a casa nostra, vide tutto, era un drammaturgo, conosceva bene Fela Kuti. Ci vedemmo più volte, ma non era convinto, non era costante. La mia idea cadde. Nell’ottobre dello stesso anno, Vicari era alla Festa del Cinema di Roma, c’eravamo anche noi perché fatalmente Giovanni era entrato nel cast di L’alligatore: fu lui ad avvicinare il regista e gli parlammo del progetto. Dopo qualche mese, Daniele ci telefonò e ci chiese di poter vedere il materiale. Preparai io stessa un montato di 13 ore, lui fu entusiasta e ci presentò la sceneggiatrice Greta Scicchitano. Mandai loro la sceneggiatura scritta da Michele e il diario di 57 pagine e altri film su Fela Kuti. Mandai libri su Fela e sulla cultura Yoruba e materiali audiovisivi di e su Michele. Cominciammo a scrivere la sceneggiatura.

Vorrei capire come si sentiva lei, Renata, durante la preparazione di questo film.
L’idea era mia, mi sono occupata della scrematura di tutto il materiale. Ho dovuto selezionare tra 400 fotografie, ho fatto digitalizzare oltre 60 ore di materiale audiovisivo comprese i materiali di video arte, e altri filmati sulla vita di Michele. Vicari e i suoi collaboratori hanno avuto un’enorme quantità di materiale su cui lavorare, selezionato da me semplicemente per il fatto che ero l’unica a conoscerlo per intero. Avrei voluto realizzare il film che sognava Michele: un film solo su Fela Kuti. Vicari, però, dopo aver visto i lavori di Michele e letto i suoi diari, capì che c’era tutto Michele in quella quantità di roba e mi fece comprendere che bisognava raccontare anche lui e il suo percorso prima, dopo, durante l’amicizia e il lavoro con e su Fela Kuti.

Le piace questo film?
Sono molto soddisfatta e ringrazierò sempre Vicari. E sono convinta che debba emergere forte, decisivo il potere politico di Fela Kuti, che resta il grande leader della lotta per la liberazione del popolo africano. La gente deve godere ancora della potenza di Fela Kuti.

Cosa ha provato dopo la prima visone in sala del film, con il pubblico?
Tenevo la mano di mio marito Giovanni, tremavo di un’emozione indicibile. Seduto accanto a me avevo Vicari. Quando si sono accese le luci della sala, Daniele mi ha esortato ad alzarmi, non ci riuscivo. Ho pianto, sono stata male. E sono stata felice. Ora, dopo l’emozione iniziale, mi sento pacificata. Abbiamo dato tutti un grande contributo per fare questo film, tutta la nostra anima. Mi chiedo, ora, cosa pensi Michele di tutto questo. Credo che sarebbe incredulo: lui ha conosciuto la ragazza molto allegra e spensierata che ero, credo sarebbe sorpreso e felice della donna matura e responsabile che sono diventata. Ho conosciuto una parte del mio carattere, ho messo alla prova me stessa. Adesso, studio il panafricanismo, mi batto per il panafricanismo attraverso Fela Kuti. Lui non è il mio Dio vivente, ma è l’anima con la quale porterò avanti la lotta del popolo africano.


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