L’ultimo tentativo di aprire una squarcio nei tanti misteri che ancora avvolgono il caso Moro, lo ha fatto qualche giorno fa il quotidiano Repubblica, intervistando il generale Roberto Jucci: era a capo del servizio di sicurezza dell’esercito, quando Cossiga era ministro dell’interno, nei giorni del sequestro del presidente della DC. Oggi ha 98 anni. L’intervista è stata fatta in occasione dell’uscita del suo libro, non a caso intitolato “Rivelazioni”, in cui il generale raccoglie i suoi ricordi.
Nell’intervista, Jucci confida al giornalista GianLuca Di Feo: «il mio più grande rammarico nel caso Moro è stato di non aver capito che venivo strumentalizzato. Nel senso che mi avevano messo nell’angolo e mandato via da Roma, per non vedere e non operare».
Il ministro Cossiga gli aveva chiesto di creare un reparto dell’Esercito che potesse intervenire per liberare Moro, quando fosse stata individuata la sua prigione. Dovevano operare con una precisione millimetrica per non rischiare la vita dell’ostaggio, racconta Jucci a Di Feo: «Mi diede una settimana di tempo. Io ho preso gli incursori del leggendario Col Moschin, ho acquistato armi sofisticate in Gran Bretagna e in Germania e li ho fatti addestrare in una base segreta all’interno della tenuta presidenziale di San Rossore.»
Cossiga aveva grande fiducia in lui, ma non lo chiamò a far parte del Comitato che gestiva le indagini, creato subito dopo il rapimento. Perchè? chiede Di Feo al generale. (Faccio notare a chi legge che su 12 componenti, 11 erano legati alla P2).
«Non mi ha mai chiamato a farne parte – risponde Jucci – e non mi ha mai parlato di quello di cui discutevano. Gli dissero di fare questo reparto ma non so se lo fecero per togliermi di mezzo da Roma. Perché io così passai praticamente tutti i giorni del rapimento in Toscana, per predisporre una squadra che non è mai entrata in azione».
Quali piduisti conosceva?, chiede Di Feo: «Molti generali e prefetti erano della P2. Ricordo Federico Umberto D’Amato: era un’anguilla, da quando era stato nominato vicecommissario della polizia imperava nell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Quando nel 1986 sono arrivato al vertice dei carabinieri, sono andato ad Arezzo e ho chiesto di Gelli al comandante provinciale dell’Arma. Lui mi disse: «Qui molti dei responsabili delle istituzioni sono stati voluti da Gelli. Il mio impegno più gravoso è stato far ricevere generali la domenica da Gelli».
«La P2 era espressione di un gruppo di potere di un Paese straniero, amico sicuramente dell’Italia, ma che aveva altri interessi», spiega il generale. Jucci si riferisce agli Stati Uniti. O meglio, a «centri di potere americani che operavano anche attraverso elementi della P2»precisa. «La P2, insomma, era uno Stato nello Stato», conclude il generale.