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Milei racconta la sua Argentina

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Non è un inedito che il politico in difficoltà preferisca l’assalto alla trincea, la tabula rasa a una trattativa alla luce del sole; e nel caso del neopresidente argentino, la fede ideologica estremista concorre a rafforzare l’impulsiva natura temperamentale. Lo scorso venerdi sera, i connazionali riuniti a cena (tutti quanti possono: negli ultimi 2 mesi altri 3 milioni di persone si sono sommate al 41,7% degli indigenti del 2023), dunque punta massima dello share, si è presentato sui teleschermi a reti unificate con il piglio imperativo d’un salvatore della patria. Era l’inaugurazione solenne dell’anno parlamentare al Congreso de la Naciòn. Vi è giunto in un furgone nero blindato, scortato dai corazzieri a cavallo del reggimento San Martin. Ha mostrato il meglio di sé denunciando inefficienze e corruzione dei governi degli ultimi 20 anni. Dopo aver preannunciato e ripetuto che “del Congresso non ha bisogno”: pensa infatti ancora di arrangiarsi con i decreti-legge e le intese sotto-banco con gli enti locali, regioni e municipalità. Non il più conciliante dei saluti per il potere legislativo, in cui non ha maggioranza propria.

Nell’insolita ora notturna, la minuziosa regia scenografica aveva recintato la protesta organizzata dai più disagiati nella piazza antistante il monumentale palazzo, con migliaia di poliziotti anti-sommossa. Mentre all’interno le telecamere hanno vistosamente evitato di inquadrare le opposizioni in ostentato silenzio, per indugiare a lungo sugli applausi e i sorrisi di ministri e parlamentari della minoranza che lo sostiene così come dei militanti invitati nelle tribune a essi riservate. In questa cornice marcatamente trionfalista, Javier Milei si è mostrato completamente a proprio agio. Forte della drammaticità della crisi che si trova a gestire e richiede senz’altro misure drastiche per combattere immediatamente inflazione e disoccupazione. La gran parte del paese, indigenti, classe media e piccole imprese più e prima d’ogni altro, le vorrebbe però socialmente equilibrate e rispettose degli ordinamenti democratici. Non come sta avvenendo, con chiusure e licenziamenti indiscriminati pur di ridurre la spesa pubblica. Condivide certe critiche di Milei ai predecessori, ma non necessariamente la purga ultraliberista e lo smantellamento dello stato che si propone.

Nel bilancio dei primi 82 giorni di governo, il neopresidente ha invece rivendicato con il tono ultimativo che gli è proprio la coerenza della sua azione con quanto promesso in campagna elettorale. In sostanza un franco determinismo senza alternative. Per lui che ama e ogni volta che può cita il Vecchio Testamento (nelle sue allegorie si riserva sempre il ruolo di Mosè), non è improprio riassumere che all’inizio e alla base di tutto c’è la proprietà privata, in quanto valore e strumento (l’ha ripetuto anche venerdi sera: perché ciascuno opera al meglio nella difesa del proprio interesse personale). Di qui lo svilimento dell’integrazione come fattore essenziale della coesione sociale e culturale, pur continuamente indicata come meta indispensabile dalle Nazioni Unite, che denunciano come causa prima del mancato sviluppo dell’intera America Latina le enormi disuguaglianze che ne frammentano le sempre più grandi popolazioni. Una preoccupazione che per ragioni non meno concrete, riconducibili evidentemente alla solvibilità reale del paese, ha espresso anche il Fondo Monetario che dell’Argentina è il primo creditore.

A riprova del fatto che deve affrontare una situazione epocale e quindi ha ragione di pretendere dal Congresso una serie di deleghe ad personam, lo stesso neopresidente ha osservato che il giustamente celebrato livello culturale dell’Argentina è sceso nel tempo, rovesciandone la responsabilità sui docenti, categoria apertamente lontana dalla sua stima. Trascura lo scarso interesse riservato da tempo alla pubblica istruzione, dimentica che lui stesso ha svalutato la moneta nazionale del 50%, lasciando però invariati -tra gli altri- i finanziamenti per le università, che minacciano di chiudere al più tardi tra un paio di mesi per mancanza di fondi. Confida nella mano dura, limita il diritto di sciopero. Invita i governatori regionali a sottoscrivere le restrizioni previste nella sua legge-omnibus, già di fatto bocciata dal Congresso, se vogliono incassare le sovvenzioni del governo centrale. Con i peronisti è guerra. Ma è ormai sfida aperta anche con l’ex presidente Mauricio Macri, che dopo averlo sostenuto fino all’elezione sarebbe adesso il deus ex machina di trame non tanto occulte per spingerlo via dalla scena.


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