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Taviani come Montaldo: quando il cinema era un grido

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Paolo Taviani, scomparso ieri all’età di novantadue anni, al pari del fratello Vittorio (scomparso nel 2018), è stato molto più di un cineasta. Apparteneva, infatti, alla generazione degli Scola e dei Montaldo: gli ultimi ad aver conosciuto l’orrore del fascismo e della guerra e, per questo, assai sensibili al tema della democrazia e propensi a battersi in prima linea per difenderla dai continui attacchi che le vengono sferrati.

Del resto, basta dare un’occhiata alla produzione dei fratelli Taviani per rendersi conto di quanto fosse forte la loro passione politica e civile, in cui utopia, sogno e concretezza si mescolavano fino a dar vita a un panorama artistico che si poneva domande sull’essere umano e sulla vita, sulle ragioni dell’impegno e sulla necessità di non perdere mai di vista i valori della Costituzione.

Il Risorgimento, gli ideali socialisti, le riflessioni sul potere, la costante ispirazione fornita dai classici della letteratura mondiale: i Taviani erano questo e molto altro, specie se si considera che fra le loro ultime opere troviamo capolavori come “Cesare deve morire”, in cui un gruppo di detenuti di Rebibbia si riscatta recitando Shakespeare, e “Una questione privata”, tratta dal romanzo di Beppe Fenoglio. Il che dimostra quanta vitalità, quanto desiderio di conoscere e scoprire il mondo e quanta curiosità li animassero anche nella parte conclusiva di esistenze fuori dal comune, spese interamente per scrutare le pieghe dell’animo umano e raccontare storie più attuali che mai.

Ora che non ci sono più, forse capiamo quanto il loro genio ci abbia arricchito. Ha accompagnato, prendendola per mano, la generazione dei baby boomers, ha restituito umanità a un presente disumano e privo di speranza e ha portato sul grande schermo e nelle nostre case un’altra idea di mondo, nella quale non sono ancora andati perduti principî come la tolleranza e il perdono. E così, se per i figli del Novecento i Taviani coincidono con opere come “San Michele aveva un gallo” e “Allonsanfàn” e “Padre padrone”, in quei Settanta in cui tutto era politica e il cinema era uno dei principali elementi della battaglia collettiva per l’emancipazione da un sistema asfissiante, per noi Millennials i Taviani sono stati, per l’appunto, coloro che hanno saputo portare Shakespeare all’interno di un carcere e far rivivere l’essenza di uno dei più grandi scrittori che l’Italia abbia mai avuto, attraverso la trasposizione cinematografica di uno dei suoi romanzi più intimi e significativi.

Sono stati un grido, dunque, una forma di riscossa e di affermazione dei diritti. Sono stati il cinema come dovrebbe essere e, purtroppo, non esiste quasi più: non per mancanza di interpreti all’altezza ma perché attualmente è assai difficile convincere un produttore a realizzare film che abbiano come scopo primario la sfida al potere e all’ordine costituito, la denuncia delle ingiustizie e la lotta contro le disuguaglianze.

Paolo e Vittorio Taviani hanno avuto la fortuna di nascere nel secolo giusto e di attraversarlo quasi per intero. Con il loro addio, ci rimane un misto di nostalgia e di vuoto. E il rimpianto per ciò che eravamo e, purtroppo, non siamo più.


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