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“l’Unità”: cento anni contro tutti i bavagli

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“l’Unità” nacque in pieno fascismo per opporsi a esso. Era il 12 febbraio 1924, due mesi prima delle tragiche elezioni del 6 aprile e quattro mesi prima del rapimento e dell’omicidio di Giacomo Matteotti, e Antonio Gramsci aveva capito, assai meglio di altri, che Mussolini avrebbe instaurato una dittatura dalle conseguenze devastanti. Anche all’epoca, fatte le debite differenze, c’erano personaggi, talvolta pure di una certa levatura intellettuale, che si prodigavano nell’opera di minimizzazione, terreno di coltura di tutti i totalitarismi, tacciando i pochi che dicevano le cose come stavano di essere degli esagerati, dei disfattisti e di non comprendere i tempi nuovi e le opportunità che offrivano. Non illudiamoci che i Gramsci, i Pertini, i Gobetti, gli Amendola e i pochi altri che, all’epoca, ebbero il coraggio di guardare negli occhi l’abisso e chiamarlo col proprio nome fossero popolari: non è così. Erano personalità eroiche nella loro solitudine, nella loro denuncia a costo della vita, nella loro battaglia contro un demone che si stava mangiando il Paese, producendo una mutazione antropologica prim’ancora che politica e devastandone lo spirito, gli ideali e la coesione sociale.
Gramsci non fu ascoltato, ancor meno capito. Per il regime era un cervello da mettere a tacere, per la sinistra un patrimonio di cui ci saremmo accorti solo dopo, quando ormai era troppo tardi e della nostra dignità non era rimasto più nulla.
Induce quasi a sorridere la scelta del nome, specie se si considerano le divisioni che già allora sconvolgevano il fronte delle opposizioni, a cominciare dalla nascita del PCd’I dalla scissione con i socialisti. Eppure aveva ragione, e ha ragione tuttora, perché quando il versante anti-fascista si è diviso, pur senza giungere al disastro del Ventennio mussoliniano, il Paese ha sempre subito eventi drammatici.
Nei “Quaderni dal carcere”, proprio Gramsci, avrebbe riflettuto più volte sui demoni che affliggevano l’Italia, sulle ragioni che avevano condotto il Duce al potere e sul perché avesse consenso. Ci sarebbero voluti vent’anni, Gramsci nel frattempo era morto, perché si giungesse a quella ribellione popolare chiamata “Resistenza”, il nostro “secondo Risorgimento” per dirla con Ciampi, e potesse poi rinascere, dalle macerie della guerra, un’Italia democratica e dotata di una Costituzione che è l’antitesi di tutto ciò che era stato il fascismo.
Sulle colonne dell’Unità (uscita per anni clandestina, per merito di personalità come Riccardo Ravagnan), grazie a direttori come Celeste Negarville, Pietro Ingrao, Alfredo Reichlin, Aldo Tortorella e altri ancora, abbiamo assistito a battaglie in difesa dei beni comuni e di tutto ciò che rende possibile il nostro stare insieme, più volte messo a repentaglio da tentativi golpisti fortunatamente falliti e da un latente anti-comunismo che non ha mai abbandonato la nostra vita pubblica.
Non sono certo mancati gli errori, primo fra tutti quello, imperdonabile, del ’56, quando il quotidiano, al pari del PCI, decise di schierarsi al fianco dell’Unione Sovietica nei giorni drammatici della rivolta d’Ungheria. Ciò non inficia, tuttavia, una storia gloriosa, giunta fin quasi ai nostri giorni e caratterizzata da un costante impegno contro tutte le censure e i bavagli (tema attualissimo). Grazie all’Unità di Colombo e Padellaro, ad esempio, abbiamo vissuto un settennio di effettivo contrasto del berlusconismo, mentre lo stesso partito di riferimento era pervaso dallo spirito del tempo. Senza voler offendere nessuno, diciamo che l’opposizione dei DS, al contrario, si è rivelata spesso, per usare un eufemismo, insufficiente. L’Unità no, l’Unità ha tenuto la barra dritta. Su quel giornale, le guerre venivano chiamate guerre e non “missioni di pace”, le leggi bavaglio e vergogna erano denunciate senza sconti e, prim’ancora, nella terribile estate del 2001, abbiamo potuto leggere molte scomode verità sui fatti di Genova e su ciò che hanno rappresentato per il nostro Paese.
Cent’anni sono tanti e non tutte le stagioni di questa testata ci hanno convinto. Alcune sono state gloriose, altre assai meno. Questo giudizio, del tutto soggettivo, non toglie nulla al valore complessivo di un “intellettuale collettivo” che è stato un baluardo delle ragioni della sinistra e un pungolo costante ad alzare l’asticella in fatto di diritti e libertà civili.
In merito alla direzione attuale, preferiamo non esprimere alcun giudizio. Siamo contenti che il giornale sia tornato in edicola, ma saremmo ipocriti se affermassimo che ci riconosciamo nella sua linea editoriale.
Sarebbe bello, in conclusione, se un concetto così nobile, unità per l’appunto, tornasse a essere un patrimonio di quello che oggi chiamiamo “campo progressista”, ma citando ancora Gramsci, siamo coscienti del fatto che “la storia insegna ma non ha scolari”.

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