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Una sentenza che non risolve le ambiguità di un Paese ri-nato grazie all’antifascismo

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La sentenza della Cassazione sul saluto fascista non risolve l’ambiguità di un Paese che ri-nato grazie all’antifascismo, tradotto prima nella lotta di Liberazione e poi nella Costituzione del ’48, dovrebbe censurare in ogni modo, non soltanto con lo strumento penale, qualunque pubblica rievocazione compiaciuta del crimine fascista.

La sentenza della Cassazione invece non fa che alimentare una ambiguità infausta, congeniale a quanti non hanno mai sopportato la cesura operata dalla Liberazione ed hanno sempre lavorato nel solco della continuità, mai digerendo il giudizio inappellabile che la nostra storia ha dato del nazi-fascismo.

Questa ambiguità, argomentata come ovvio in modo così dotto da disorientare, mi ricorda molto il gioco di prestigio che si consumò nel nostro Paese all’indomani della scoperta degli elenchi della P2 nella casa del poco venerabile Licio Gelli. Lo Stato, scosso, decise di dare un “segnale” forte e chiaro, di quelli che devono fare “piazza pulita” e dimostrare senza alcun dubbio la determinazione delle Istituzioni. Nacque così la legge 17 del 1982, la così detta “Legge Anselmi”, che avrebbe dovuto dare attuazione normativa all’art. 18 della Costituzione che proibisce le associazioni segrete (oltre a quelle di “carattere militare”), ma una “manina” operò in maniera sapiente per neutralizzarla in radice. Infatti all’art. 1 vennero definite associazioni segrete e come tali proibite quelle associazioni che occultando la loro esistenza (…) SVOLGONO attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Insomma: secondo la norma, l’associazione proibita non è quella segreta, punto e basta (come evidentemente preteso dalla Costituzione), ma quella segreta che agisce al fine di interferire con le funzioni di organi costituzionali. Prova diabolica! Legge svuotata, come bene aveva inteso la Anselmi che infatti disconobbe la Legge, invitando a chiamarla piuttosto Legge Spadolini. Mutatis mutandis, qui si vorrebbe consumato il reato (secondo la legge Scelba o secondo la legge Mancino) soltanto provando che il “gesto” del saluto fascista sia stato effettivamente prodromico alla commissione di altro reato o alla ricostituzione del partito fascista. Prova diabolica! Quando invece andrebbe apprezzato il disvalore giuridico in se stesso prodromico ed apologetico dell’aver evocato, anche attraverso una commemorazione pubblica, il crimine fascista. D’altra parte quale atto è più politico del fare memoria e come si può manifestare la propria promessa di impegno futuro più convintamente se non attraverso la commemorazione pubblica di certi morti?


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