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Beni confiscati fermi e silenzio delle istituzioni. Il caso del Laboratorio Radici

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Non sempre giustizia e legalità coincidono. Spesso si parla di quanta potenza abbia il riutilizzo dei beni confiscati, meno spesso si discute di quanto l’abbandono di questi beni amplifichi il senso di impossibilità a costruire una società e un vivere quotidiano diversi da quello in cui i più vorrebbero condannata la Calabria e il Sud in generale. Secondo le stime di Libera, dal 1982 al 2022 sono stati confiscati più di 36.600 beni immobili. Di questi, solo il 48% è stato destinato dall’Agenzia nazionale per le finalità istituzionali e sociali: 5 beni su 10 sono ancora da destinare, quindi ancora da redistribuire alla collettività secondo la legge 109/96. Con questa legge l’Italia ha scritto la pagina più avanzata in materia di riutilizzo dei beni confiscati, un faro per l’Unione europea che adesso ha raggiunto l’accordo per una Direttiva che uniformi le diverse legislazioni presenti in 19 stati membri.

“Restituire il maltolto” recitava lo slogan dell’associazione di don Luigi Ciotti, promotrice della legge. Ma questo modo di redistribuire ricchezza se sulla carta si è fatto legge nella realtà stenta a decollare.

A Reggio Calabria, per esempio, c’è una delle tante storie che provano questa contraddizione. Con la perseveranza delle formiche e il cuore dei leoni l’associazione culturale Magnolia ha costruito bellezza là dove tutto sembrava – ma non è, non sarà mai – perduto. Per quasi 10 anni un bene confiscato alla ‘ndrangheta nella periferia sud della città è stato abitato e riempito di arte, cultura, conoscenza, condivisione. Bello, bellissimo. Ma da quattro anni, da marzo 2020, il Laboratorio Radici è chiuso, in attesa di un rinnovo e degli interventi comunali per l’agibilità del bene che tardano ad arrivare.

«Questo spazio è un bene della collettività e non solo il nostro, un bene comune che non deve essere abbandonato all’incuria», dice Rossana Melito che presiede Magnolia. Dal 2011 l’associazione è assegnataria, insieme all’associazione culturale GaStretto, di un bene confiscato alla ‘ndrangheta, un’ex officina collocata nella parte inferiore di un immobile a due piani costruita negli anni Settanta e confiscata negli anni Ottanta. Ci sono voluti tre anni di lavori e circa 6.000 euro per rimetterla a posto prima di aprire finalmente i battenti nel 2014 nell’estrema periferia sud della città. E ci sono voluti pure il tempo e il denaro sottratti alle loro sole forze. «Abbiamo fatto tutto con le nostre sole risorse – ricorda Rossana: arredando, ridipingendo e rifacendo l’impianto elettrico, ci siamo finanziati con autotassazione, autogestione e con l’aiuto di tanti».

Laboratori, live, mostre, presentazioni di libri e iniziative di ogni specie e respiro sono state sempre documentate e trasmesse a chi di competenza. Così il “Laboratorio Radici” è diventato la sede sociale delle due associazioni nonché luogo e laboratorio per molte associazioni cittadine, creando una rete solidale il cui culmine è stato, a settembre del 2019, ContaminAzioni, un festival itinerante realizzato anche questo senza fondi pubblici, grazie al crowdfunding e all’adesione di talenti e forze della collettività.

Tutto sembrava in discesa finché la concessione del bene confiscato, di durata novennale è scaduta nel 2020 nel più totale silenzio. Eppure ad aprile 2019, un anno prima della fine della concessione, l’associazione aveva avviato tutte le procedure per richiedere il rinnovo dell’assegnazione e segnalando le criticità strutturali che non consentivano di metterlo in sicurezza e renderlo agibile. Le condizioni dei locali, resi funzionali e manutenuti senza l’impiego di fondi pubblici, nel tempo sono peggiorate. Da allora pec, mail, iter burocratici di ogni ordine e grado, almeno dieci solleciti e in risposta solo il silenzio. Gli assegnatari non hanno ricevuto nessuna comunicazione, nemmeno di disdetta.

«A tutto questo non abbiamo mai ricevuto risposta da parte degli organi competenti. Siamo stati ricevuti da una ormai ex funzionaria del settore Patrimonio, l’unica a interessarsi alla pratica, ma la situazione è rimasta sempre in sospeso, senza risposta», conferma Rossana. Ma i funzionari cambiano spesso, gli uffici pure. «Il problema è proprio questo: non sai mai con chi devi parlare e non ricevi mai nessuna risposta formale o ufficiale».

Così, l’associazione ha richiesto uno spazio all’aperto lì vicino, un’area verde di competenza regionale, per svolgere attività, laboratori e iniziative di riqualificazione ambientale. Anche qui, la risposta è stata il silenzio. Nel frattempo, quello spazio è diventato un parcheggio per i frequentatori di un locale commerciale. E allora, ancora, hanno richiesto altri spazi pubblici all’aperto e presso altri beni confiscati. Per farlo hanno scritto un documento insieme ad altre realtà culturali, spiegando le loro ragioni e stilando un elenco di possibili beni da riutilizzare. L’ennesima pec, un primo incontro interlocutorio con il Comune. Poi, ancora silenzio.

Oggi in contrada Gagliardi di Arangea la serranda è chiusa. Gli ex abitanti hanno disdetto tutte le utenze, aspettano almeno una risposta per consegnare le chiavi. Non sappiamo se il Laboratorio Radici tornerà a essere la sede di Magnolia, non sappiamo nemmeno se sarà utilizzato per finalità sociali e culturali. «Quello che abbiamo fatto in questi anni rispetta la destinazione dei beni confiscati e il loro riutilizzo sociale, come prevede la legge», aggiunge Elvira Calluso, vicepresidente di Magnolia. «Non chiedevamo altro che continuare questa esperienza e non disperdere quello che è stato creato per la comunità».

Dicono che il silenzio da queste parti sia roba di omertà e di mafiosi, ma oggi è il silenzio delle istituzioni a interrompere un’esperienza in cui giustizia e legalità coincidevano.

Fonte https://www.italiachecambia.org/


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