Con Alma Pöysti e Yussi Vatanen.
Olappa, lui, e Ansa, lei, sono due disoccupati di Helsinki. Si incontrano, si piacciono, forse, si rivedono, dopo essersi persi, si riallontanano e alla fine si ritrovano. E’ geometrica, aritmetica, l’ultima opera di Kaurismaki, come non può che essere. Sì perchè la vita per l’artista finlandese è semplice, soltanto due, tre cose ma importanti: un lavoro, un amore, la serenità. Ma, come per il Chaplin di “Tempi moderni”, queste cose diventano impossibili per chi non può mettere in ordine strutture e sovrastrutture in maniera dignitosa. E Olappa e Ansa non hanno niente, hanno perso tutto, il lavoro innanzitutto. Non hanno soldi, sono sfruttati, soffrono in silenzio, parlano poco, soltanto lo spirito di sopravvivenza, o la forza d’inerzia, li tiene in vita. Cercano di dare un senso alla loro esistenza di sopravvissuti, di morti viventi (uno dei film citati è proprio un remake del famoso film di George A. Romero, “La notte dei morti viventi, 1968, visto al cinema dai due protagonisti), stando insieme, ma non è facile perchè lui beve e lei non vuole. Olappa decide così di non bere più, ma il destino vale anche per lui, e finisce sotto un tram.
Si salva e si ricongiungono. Il finale li rivede insieme allontanarsi, in compagnia del cane di lei, che si chiama, vedi caso, Chaplin, verso un destino che tutti, ahimè, immaginiamo, e che del finale del succitato capolavoro chapliniano mantiene solo la prospettiva di una strada lunga, quasi infinita, ma senza più alcuna speranza di sbocco verso un futuro migliore, se non la mera, necessaria e umana sopravvivenza. Gioca con il cinema Kaurismaki, citandolo (Chaplin su tutti, ovviamente, ma anche Godard, Melville, Lean, Bresson, Visconti, Verneuil, e altri), e parodiandolo, giusto per dirci che non ci sono più sogni da raggiungere nè tantomeno da guardare in una sala (vedi il rispecchiamento tra noi, spettatori di questo film “di-sperato”, e i due protagonisti, spettatori del succitato, macabro e simbolico, remake). Con questo film, Kaurismaki, oltre a chiudere la quadrilogia sul lavoro e il Capitale, iniziata con “Ombre in Paradiso”, ’86, e proseguita con “Ariel”, ’88, e “La fiammiferaia”, ’89, sembra voler congedarsi proprio dal cinema, tanto ne prende le distanze, pur mostrando di amarlo alla follia, estremizzando la sua “solita” messinscena, raggelandola, rendendola inerme, ferma, come a dichiarare l’impossibilità di raccontare un mondo irraccontabile, giunto al suo grado zero (dentro c’è anche il conflitto russo-ucraino, i cui echi giungono via radio, e ci sarebbe stato anche quello israelo-hamasiano se il film fosse stato realizzato dopo), dove i rapporti umani sono oramai quasi robotizzati, resi impari da un sistema sociale preilluminista, in cui gli uomini sembrano ritornare all’originale stato di ferinità senza bisogno di aggredirsi perchè ogni forma di sopruso a danno dei deboli e degli sfruttati è stato oramai decretato per legge. Il cinema muto corre in aiuto di Kaurismaki, come sempre peraltro, imprimendo, stavolta, al ritmo del film i toni della tragica pantomima che si avvolge su stessa fin quasi a voler divorare ogni forma di narrazione.
I dialoghi non sono banali alla Antonioni, nel senso che non evidenziano la difficoltà della comunicazione, bensì sono esplicitamente resi tali perchè lo spettatore si renda conto di quanto ogni essere umano possa essere snaturato e reso ridicolo da un mondo circostante che non gli coincide più, che non lo contempla più. La parola non ha più senso in un mondo insensato, tranne quando diventa persino veicolo di vita per chi ci crede ancora, come per Ansa che fa svegliare dal coma il suo amato Olappa anche soltanto con le parole crociate. Ridiamo tanto in sala, come mai con Kaurismaki, ma ogni risata ci si ritorce tragicamente contro. Tutto è struggente in questo film, le citazioni di tanti grandi autori del cinema del passato non sono altro che rimpianti per un mondo che ha avuto grandi possibilità di consapevolezza e cambiamenti, svaniti nel nulla di chi ha imposto la forza dell’avere alla ragione dell’essere. Rimangono gli ineffabili ed incantevoli sguardi dei protagonisti e dei loro sodali comprimari a ricordarci un’umanità destinata tristemente all’estinzione, e di cui giusto il cinema sarà testimonianza ultima per i futuri archeologi dell’anima. Difficile, oggi, citare un altro autore così grande nel raccontare tutto questo, con una semplicità, ovviamente soltanto apparente, degna dei Maestri di ogni forma d’arte giunti al vertice della loro espressività.