Tralasciamo le singole vicende. Non è nostra intenzione scagliarci contro chicchessia né trasformare uno o più personaggi in capri espiatori. Le questioni da porre sul tavolo, dopo ciò cui abbiamo assistito nell’ultimo anno, sono due ed entrambe dirimenti. La prima: che senso ha una festa di partito quando si è al governo? La seconda: come si può non comprendere che, una volta assunti ruoli pubblici di quell’importanza, sia in ambito politico che professionale, per giunta ai vertici di un’azienda strategica come la RAI, non si devono accantonare le proprie idee ma è, comunque, indispensabile assumere una postura istituzionale, prendendosi il compito di rappresentare la comunità nel suo insieme?
Non è la prima volta che rivolgiamo queste domande. Anche negli anni precedenti abbiamo criticato, e non poco, kermesse di partito o addirittura di corrente, organizzate da personaggi che avrebbero dovuto rappresentare anche me, che con quel partito, e ancor più con quella corrente, non avevo nulla a che spartire. Ora, però, siamo al salto di qualità. È come se a guidare il nostro Paese, infatti, fosse giunto un gruppo di amici di vecchia data che avesse deciso di prendersi una sorta di rivincita esistenziale: per gli anni in cui il partito di provenienza, di cui per ragioni d’età alcuni di loro non hanno fatto nemmeno parte, è stato tenuto fuori dall'”arco costituzionale”, quando ancora maggioranza e opposizione concordavano sulle imprescindibili radici anti-fasciste della Costituzione repubblicana, e per il decennio in cui il loro partito attuale è stato all’opposizione. Non si tratta più, dunque, di una legittima azione di governo, sancita dall’elettorato e pertanto meritevole del massimo rispetto, ma di una presa del potere, in cui tutto si tiene e tutto si collega.
Anche in passato di alcuni direttori RAI conoscevamo non solo il partito ma, in alcuni casi, persino l’area di riferimento; nessuno di loro, tuttavia, l’avrebbe mai rivendicata pubblicamente. E non per generosità o per “politically correct” ma per senso del dovere, per quell’idea nobile, evidentemente ormai passata di moda, che si dovesse sempre unire il Paese, comprese le persone più lontane dal nostro modo di sentire e di essere.
È un problema culturale, insomma, prim’ancora che politico. Siamo di fronte alla scomparsa di un certo modo di pensare e di sentire che consentiva la separazione dei ruoli, l’accantonamento dello spirito di parte in nome del bene comune e, più che mai, il tendere la mano alle diversità, elemento irrinunciabile in qualunque democrazia che non abbia smarrito la propria essenza.
Nel momento in cui una classe dirigente avverte, invece, il bisogno di auto-celebrarsi, chiamando a raccolta gli amici ed escludendo di fatto gli altri, per quanto mi riguarda, si ha il dovere di disertare l’appuntamento. Non per mancanza di apertura al dialogo e al confronto ma per compiere una seria riflessione sulle modalità dello stesso, che in democrazia, ribadiamo, vengono assai prima dei contenuti.
Ciò che ci addolora è l’indignazione momentanea, quasi dovuta, di facciata, la perdita di passione civile, l’assenza di iniziativa, quel processo di “spoliticizzazione” che denunciava già Pasolini e che oggi è giunto al culmine. Ma così resta solo il vuoto. Una politica inutile e inconcludente. Un’opposizione che non c’è e una partecipazione civica che avverte a sua volta, comprensibilmente, il dovere di disertare.
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