Clementine Nkweta-Salami, vice rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU in Sudan, l’ha immortalata come la crisi che si aggrava più velocemente tra le tante in atto nel mondo. “La popolazione vive come sulla lama di un coltello” ha aggiunto commentando i dati relativi agli interventi umanitari che fino ad ora hanno potuto raggiungere solo 3 milioni e 600 mila persone rispetto ai 18 milioni che ne avrebbero enorme bisogno.
Secondo una organizzazione indipendente (Acled), sono più di 9 mila le vittime dei combattimenti scoppiati a metà dello scorso aprile tra l’esercito governativo sudanese (SAF) guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan (nei fatti capo dello stato) e le Forze di Supporto rapido (RSF), un gruppo paramilitare agli ordini dell’autoproclamato generale Mohammed Hamdan Dagalo. A questi vanno aggiunti i morti per malattia, stenti e fame, cause strettamente legate al conflitto.
Ci troviamo di fronte ad una catastrofe umanitaria che ha già prodotto 5 milioni e mezzo di profughi, secondo le stime dell’Ocha (l’organismo Onu che coordina gli interventi): una media di 30 mila al giorno che scappano spesso solo con i vestiti che indossano. 4 milioni e 400 mila hanno trovato riparo nei 18 stati di cui è composta la repubblica federale mentre un milione e 100 mila ha oltrepassato i confini trovando asilo in Ciad, Egitto, Etiopia, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana. Paesi confinanti che alle strutturali fragilità aggiungono anche l’emergenza determinata dall’accoglienza. Ora la situazione è particolarmente grave in Ciad, che accoglie i fuoriusciti dal Darfur, e in Sud Sudan, dove stanno ritornando soprattutto i sudsudanesi residenti in Sudan costretti a fare rientro nel paese di origine. Il governo di Juba ha chiesto 358 milioni di dollari per fronteggiare la situazione, ma gli appelli sono stati largamente sottofinanziati.
Drammatica è la situazione sanitaria. Il 70% delle strutture (già insufficienti in origine) sono state distrutte nel corso dei combattimenti. Gli accesi scontri armati impediscono la consegna di cibo, acqua e medicine a quanti ne hanno bisogno: si aggiungono inoltre i tempi lunghi necessari alle trattative con vari gruppi armati per l’accesso a comunità remote. La diffusione di epidemie non dà tregua alla popolazione stremata. Particolarmente grave è quella di colera, scoppiata nel campo profughi di Gedaref, nell’est del Sudan, e nella capitale Khartoum: già si conta un migliaio di casi e più di 50 morti. Ma a preoccupare ulteriormente è il diffondersi di morbillo e febbre dengue. Mentre piogge ed inondazioni hanno flagellato più di 70 mila persone in 7 stati, causando una impennata delle malattie trasmesse con l’acqua inquinata.
Intanto aumentano i casi di violenza sessuale e di genere, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, gravi violazioni dei diritti umani e dei bambini. Saccheggi di abitazioni e negozi, confisca di veicoli civili fanno ormai parte del drammatico vissuto quotidiano di una popolazione allo stremo.
Secondo l’Onu metà della popolazione sudanese (24 milioni e 700 mila abitanti) ha oggi bisogno di assistenza e protezione umanitaria.
I due contendenti difendono solo interessi propri e dei loro stretti collaboratori (vedi il numero 6 di giugno di CONFRONTI). Ma preoccupa l’intensa partecipazione dietro le quinte al conflitto da parte di varie potenze straniere interessate a cambi di alleanze e strategie. Imbarazzante l’invio di armi degli Emirati Arabi Uniti alle Rsf documentato anche dal quotidiano New York Times. Il governo di Abu Dhabi fa infatti parte del gruppo (con Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita) che sta tentando di negoziare la pace tra i due leader. Ma con Dagalo esiste una vecchia intesa che risale al 2015 quando le sue milizie combatterono in Yemen e poi in Libia al soldo degli Emirati che in cambio gli hanno offerto generosa ospitalità bancaria e finanziaria ai traffici di oro estratto in Darfur. Anche Mosca guarda con interesse ed attenzione a Dagalo.
Intanto il presidente al-Burhan trova alleanze tra gli islamisti legati all’ex regime del presidente Omar El-Bashir, deposto nel 2019 anche grazie allo stesso al-Burhan. Milizie di giovani addestrati in campi militari sarebbero pronti ad affiancare l’esercito. L’obiettivo è la restaurazione del vecchio regime. I sogni della “primavera sudanese” stanno già morendo, prima dell’alba.
Pubblicato dalla rivista mensile CONFRONTI n.11 novembre 2023