Con la scomparsa di Federico Fellini, trent’anni fa, se ne andava un genio, fortunatamente compreso anche se non del tutto. Il suo cinema era nato in sogno, probabilmente nei sogni che faceva da bambino, quando si divertiva a inventarsi un mondo, ribattezzando i quattro angoli del letto con i nomi dei cinema della natia Rimini e dando vita a uno spettacolo che dalla sua fervida mente si sarebbe presto trasferito sul grande schermo.
Sapeva di essere un gigante e non si nascondeva dietro la falsa modestia che, talvolta, caratterizza i mediocri. Persino nel definire il fascismo era stato impeccabile: “Se non siamo cresciuti del tutto imbecili, è stato un miracolo”.
Con i suoi film, che spesso hanno visto protagonista l’amatissima moglie Giulietta Masina, ha raccontato l’epopea tragicomica di un Paese che stava cambiando, non sempre in meglio, e ne ha analizzato in particolare la malinconia: quel misto di provincialismo, nostalgia e buoni sentimenti che costituiva la base del carattere nazionale.
Inutile analizzare l’opera felliniana; o, per meglio dire, sarebbe un’impresa ardua. Basti pensare all’affresco della Romagna ai tempi del Regime in “Amarcord”, che quest’anno compie mezzo secolo e che seppe mettere a nudo, come nessun altro, la vera natura di una dittatura barbara ma, al contempo, da operetta, in grado di illudere milioni di italiani circa una nostra presunta superiorità, conducendoci ignari verso la catastrofe. E che dire della tristezza profonda de “La dolce vita”, specchio amaro di un boom economico che conteneva in sé i germi dei disastri successivi? Forse il Fellini più autentico, dopo “Amarcord”, è quello de “I vitelloni”, con quel misto di sfrontatezza, cattiveria e ingenuità che furono gli aspetti principali della generazione che si era lasciata alle spalle il Ventennio ma ne conservava ancora alcune caratteristiche, a cominciare dalla mancanza di rispetto per il prossimo e dall’individualismo sfrenato. O forse è quello di “8 1/2”, specchio della sua anima, in cui Guido, il protagonista, magistralmente interpretato da Marcello Mastroianni, dice una frase che è la quintessenza del pensiero felliniano: “La felicità consiste nel poter dire la verità senza far mai piangere nessuno”.
Potremmo andare avanti nell’elenco, e ne varrebbe la pena, ma non è questo il nostro intento. Fellini, infatti, non amava le adulazioni, le agiografie e, meno che mai, l’elenco dei suoi notevoli successi. Preferiva una battuta ficcante al momento opportuno, come quella che una volta mi riferì Loris Mazzetti. Seduto a tavola con Biagi, Enzo gli fa: “Tu che sei quasi un genio”. E lui: “Ma leva il quasi!”.
Non a caso, chi lo ha saputo rappresentare meglio è stato Ettore Scola, che gli dedicò nel 2013 un ricordo intitolato “Che strano chiamarsi Federico”. E a me torna in mente una mattina di fine dicembre, in un cinema d’essai a Trastevere, in cui mi trovai, per uno dei casi fortunati della vita, seduto fra Scola e Zavoli che si raccontavano il loro Fellini e mescolavano i capolavori che aveva realizzato al proprio personale amarcord. Mi torna in mente la Rimini degli anni Venti, descritta con innato lirismo da Zavoli, e la curiosità fanciullesca di Scola che voleva saperne di più. E in mezzo il mio incanto nel sentirmi stranamente il più vecchio fra due mostri sacri che avevano conservato un’incredibile freschezza, quasi una fanciullezza, che si rifletteva nelle loro opere: il cinema felliniano dell’uno e le poesie dell’altro.
Ribadisco: non ha senso star qui a elencare titoli e statuette. Federico Fellini era uno di quegli “italiani da esportazione”, per citare ancora Biagi, che il mondo ci ha invidiato, che l’America ha spesso premiato e al quale dobbiamo esprimere la nostra sincera gratitudine perché, a pensarci bene, anche noi che non abbiamo vissuto il fascismo originale, con le stagioni che si sono susseguite negli ultimi tre decenni, se non siamo cresciuti del tutto imbecilli è stato un miracolo. E i suoi film indimenticabili ci sono venuti in soccorso.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21