Sono trascorsi trent’anni dalla scomparsa di Federico Fellini, a qualcuno sembrerà un giorno a qualche altro un secolo. Era mezzogiorno del 31 ottobre 1993, quando giunse la notizia e l’attrice Milena Vukotic si affrettò a chiamare il Vaticano da una cabina telefonica, per sollecitarli a suonare il campanone e avvertire del lutto l’intera città. La segreteria rispose che il protocollo prevedeva il rito solo per la morte dei pontefici, e il campanile di San Pietro rimase muto.
Noi che ci aggiravamo nei corridoi dell’ospedale come se avessimo perso l’orientamento, non comprendevamo bene il rifiuto, convinti che il Papa fosse Federico. Anzi, anche più di un Papa, perché con la sua morte si chiudeva un’intera epoca.
Fellini si era spento nella camera sterile del Policlinico Universitario Umberto I, dopo due settimane di agonia non cosciente, così dicevano i bollettini, in cui tuttavia le sue labbra non smettevano di parlare, avevano continuato a muoversi per tutto il tempo, giorno e notte, tra lo stupore dei sanitari e dello stesso medico curante Gianfranco Turchetti, tra i pochi ad avere libero accesso alla stanza. Il giorno prima, 30 ottobre, ricorrevano i cinquanta anni di matrimonio della coppia più celebre e amata del mondo del cinema, e Giulietta, già minata dal male, aveva voluto stare a lungo accanto al marito recitando il rosario e festeggiando in quella ostinata preghiera il loro incontro fatale. Cosicché il giorno nella morte i giornali italiani erano usciti con il titolo in prima pagina: LE NOZZE D’ORO DI FEDERICO E GIULIETTA.
Era sembrato a tutti che il regista, per andarsene, avesse voluto attendere quel traguardo e anche accompagnare il congedo con un ultimo atto di regia, la messa in scena di un film non girato sulla propria morte. Da giorni e giorni l’ospedale romano era letteralmente circondato dai camion della RAI per la diretta televisiva e dai furgoni attrezzati con le antenne a parabola di tutte le emittenti del mondo, in spasmodica attesa di trasmettere in ogni lingua la notizia ferale. Un accampamento mediatico in cui era impossibile non riconoscere la tipica carovana del cinema tanto amata da Federico; sembrava di assistere a “L’asso nella manica” di Billy Wilder, con i giornalisti sovreccitati alla fiera della tragedia collettiva.
Sparito Fellini, sparita la sua anima, cosa sarebbe stato del nostro cinema? Veniva a mancare il Faro, come il regista era chiamato a Cinecittà dalle maestranze; un epiteto inventato da Ettore Bevilacqua, in arte Hector Boileau, massiccio ex pugile, generico dei western all’italiana, riciclato in personal trainer prima di Mastroianni e poi di Fellini, che però lo utilizzava nel suo abituale stile eterodosso. Quando Ettore si presentava la mattina alle sette, all’ora del bagno, per assisterlo negli esercizi ginnici prescritti, Federico lo attendeva comodamente disteso nella vasca, e gli esercizi li riservava a lui: “Quante flessioni Ettore?” “Venti, dottore”. “E allora che aspetti, sbrighiamoci che è tardi”. E Hector Boileau eseguiva senza battere ciglio, da ligio professionista. Il loro era un siparietto da avanspettacolo, una strip da fumetto, come quando in viaggio verso Cinecittà ingaggiavano duelli all’ultimo sangue sul raccordo anulare. Fellini dietro i vetri dell’auto della produzione, Ettore dal suo piccolo coupé, sputavano fuoco con le dita tese in foggia di revolver, e a turno mimavano di soccombere accasciandosi sul sedile. Ettore, spregiudicato, toglieva persino le mani dal volante in un’interpretazione a rischio incidente, incurante delle altre auto che strombazzavano impazienti, mentre loro ridevano come matti, due bambini al circo.
Era morto il Papa. E non ci sembrava possibile.
Perché mi torna in mente tutto ciò? Perché una brava giornalista del settimanale Gente, Sabrina Bonalumi, mi aveva domandato in una intervista quale fosse l’ultima frase importante che ricordavo di Federico. D’istinto avevo risposto con un’affermazione di lavoro che era affiorata durante i nostri colloqui in ospedale. Dopo l’ictus e la degenza agli Infermi di Rimini, il regista era stato trasferito in un nosocomio di Ferrara, il San Giorgio, specializzato nella riabilitazione. Arrivavano richieste di interviste da tutti i giornali, alcuni inviavano domande e questionari su ogni possibile argomento dello scibile. Fellini era proprio considerato un oracolo, come del resto aveva ampiamente dimostrato negli ultimi film, scopertamente delfici, Prova d’Orchestra, La Città delle donne, E la nave va, Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna. Opere che ormai in pochi conoscono o ricordano, quando invece costituirebbero un breviario indispensabile in questo mondo sempre più confuso.
Tra noi si parlava anche di cinema, e qualche volta del mio avvenire. “Tu che intendi fare”, mi aveva domandato, trovandomi riluttante; non avevo una risposta pronta, non volevo contemplare neppure per ipotesi la sua scomparsa, considerandolo eterno. “Non lo so, cercherò di restare nel mondo del cinema”. “Non lo fare – mi disse – noi fabbrichiamo lampadari per case senza soffitto”. Rimasi sbalordito, in un’immagine aveva espresso tutto. A cosa servono dei bellissimi lampadari di cristallo se non sappiamo dove appenderli, se non esistono più abitazioni in grado di accoglierli? Un film degno del nome è un’operazione da orafi e da ingegneri, da affrescatori e creatori di universi. Imprese per lo schermo come La dolce Vita, 8 ½, Satyricon, Amarcord, Casanova, erano ormai irrealizzabili, e non soltanto per lo sforzo finanziario. Era proprio venuta meno la visione stessa della vita che le rendeva possibili. Sarebbero oggi concepibili il Colonnato del Bernini, la Cappella Sistina, il Campanile di Giotto, la cupola del Brunelleschi, le Stanze della Segnatura di Raffaello, il David di Michelangelo? Basta guardarsi attorno, c’è un paragone possibile? Il cinema, la Settima Arte, che nell’arco del Secolo Breve aveva conosciuto la sua massima fortuna ed espressione, era in irreversibile declino. C’era in atto una grande svolta che lo stava appiattendo, omologando, disgregando. Lo spettacolo di massa televisivo, il piccolo schermo catodico, mischiava in un unico ribollente calderone fiction e notiziari, spot pubblicitari e dibattiti, varietà e sante messe, in un coacervo informe in cui i linguaggi si annullavano vicendevolmente, senza più alcuna distinzione.
E non eravamo ancora neppure all’inizio dell’era digitale in cui le immagini torrenziali sarebbero state davvero indistinguibili, sovrapposte, miniaturizzate, falsificate, scorporate.
“Stiamo andando verso la derealizzazione dell’individuo umano – aveva dichiarato Fellini all’Espresso; – presto psichicamente i giovani non sapranno più distinguere la realtà dalla finzione, confonderanno l’una e l’altra”.
Nelle cronache dei giornali non si parla ormai che di questa emergenza raccapricciante, per quei pochi che ancora leggono, avendo i più disimparato la parola. I quotidiani stanno morendo giorno dopo giorno, venendo meno con essi ogni spazio di riflessione individuale. La notizia visiva è performativa, viene bruciata nell’attimo stesso in cui si consuma davanti ai nostri occhi. E si passa già ad altro. Presto saremo immersi in una dimensione virtuale, il metaverso, in cui sarà pressoché impossibile emettere giudizi di merito. È uno scenario in arrivo che Fellini aveva infallibilmente intuito e centrato: i film sarebbero stati lampadari per case senza soffitto.
Cosa avrebbe fatto oggi Fellini, come avrebbe reagito di fronte a un tale sconvolgimento? Ce lo domandiamo in tanti. Personalmente sono convinto che nulla lo avrebbe alienato dal suo lavoro: la sua curiosità, la sua fantasia inesauribile avrebbero prevalso se non ci fosse stata l’ingiuria dalla malattia invalidante e infine mortale. Il prisma iridescente della sua mente non conosceva soste, e ne ebbi riprova proprio negli ultimissimi giorni di vita. Era ricoverato al reparto di Neurologia del Policlinico romano. Gli avevano assegnato una stanza a due letti e un armadietto di ferro striminzito da cui i suoi abiti ed effetti personali fuoriuscivano sparsi disordinatamente a terra. Dal comodino, anch’esso di ferro, in cui Federico riponeva qualche piccolo oggetto e il portafoglio, gli avevano rubato persino i soldi che gli servivano per le emergenze. Non c’era un infermiere che lo accudisse costantemente, abbandonato a sé stesso. “Disperso dei dispersi” come aveva presagito nel sogno di sette mesi prima che ho raccontato nel ‘romanzo verità’ FEDERICO F.
Qualche notte, sapendolo in preda a crisi di dispnea causate dall’angoscia, Rinaldo Geleng, il suo inseparabile vecchio amico di bohème, andava a stendersi sul letto accanto per tenergli compagnia e mitigare il turbinio dell’insonnia.
Ogni giorno, nel pomeriggio, mi recavo a trovarlo, mi appariva ‘sperso’ proprio come in quella premonizione onirica esattissima di ciò che era in arrivo e ora si stava puntualmente avverando. Vederlo in quella condizione di trasandatezza, così irriferibile all’uomo celebrato e osannato in tutto il mondo come un monarca, mi risultava insopportabile, non riuscivo a farmene una ragione. E a un certo punto, mentre gli sedevo accanto a capo del letto, avevo sussurrato tra me scuotendo la testa: “Che ingiustizia! Che immensa ingiustizia!”
Dal mio scoramento lui aveva trattenuto quell’unica parola, e la respingeva: “Perché ingiustizia? Cosa c’entra?” Rifiutava, inflessibile, qualsiasi autocommiserazione. Accettava la contrarietà come stimolo creativo – la sua irrinunciabile filosofia di vita – e nello stesso tempo allontanava da sé l’idea tenebrosa, arcigna, di un irreparabile rovescio del destino.
Balbettai privo di argomenti: “Nulla, Federico, mi sembra proprio ingiusto che proprio tu sia stato colpito in questo modo.” “È la vita che decide per noi.” Ribatté. Malandato com’era mi stava impartendo una lezione degna di uno stoico, di un antico sapiente. Non giudicava, non rivendicava, restava più volentieri in allerta, immancabilmente assistito dall’istinto di trasformare in favola anche i fatti dei quali era egli stesso protagonista. Testimone fino alla fine, fino all’ultimo. Ecco perché il suo cinema, come tutta la grande arte, non cesserà mai di incantarci e di renderci immortali.