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Sinodo, la sfida della Chiesa nella guerra mondiale a pezzi

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Ho saputo dell’attacco di Hamas in Israele mentre ero seduto al mio tavolo durante il Sinodo in Vaticano. L’ho saputo da una signora di Haifa, nata in Israele in una famiglia cattolica araba. Accanto a lei ascoltavano le sue parole smarrite l’arcivescovo cattolico di Mosca e l’arcivescovo maggiore di Kiev. Dall’altra parte del tavolo una suora irachena di Mosul. Le trincee del mondo si sono intrecciate sui tavoli sinodali fatti a cerchio. Tutti ci siamo guardati in faccia e tutti eravamo dalla stessa parte, quella della pace e del dolore. Al di là di ogni riflessione di carattere ecclesiale e teologico, questo ci ha messo davanti l’Assemblea sinodale voluta da Francesco: il mondo spezzato, fratturato, diviso. E noi eravamo lì uniti, sodali e sinodali.

Venerdì 27 ho visto una mappa del mondo basata sulla votazione dei Paesi dell’Assemblea dell’ONU circa la tregua a Gaza. Poi l’ho sovrapposta alla mappa dei Paesi che hanno appoggiato le sanzioni alla Russia per la sua invasione dell’Ucraina. E poi ho guardato l’Aula sinodale. Un capogiro: ho capito che quel che stavamo vivendo era sconvolgente. Davanti a un ordine mondiale ribaltato, per il quale non c’è ancora un logos, una ragione comune che tenesse uniti i pezzi, i membri del Sinodo coprivano tutta la mappa dell’Onu in una conversazione senza veti.

Non esiste una organizzazione internazionale come la Chiesa cattolica che possa tenere insieme gli opposti in un dialogo che ha richiesto la libera parola di ciascuno, ma anche l’ascolto e la risonanza. E non sulle proprie idee, ma su quelle espresse dagli altri. Nei nostri tavoli era scomparso l’io megafonico proprio del discorso politico dei nostri giorni. Non c’era più lo schieramento, ma lo schiarimento. L’altro è sempre rimasto altro e mai «avversario».

L’esigenza ai tavoli di discussione non è mai stato quello di esprimere il punto di compromesso, il più alto livello di condivisione possibile, no. Ma con chiarezza dire le convergenze, sì, ma anche quali fossero i punti controversi e le proposte di approfondimento. Essere liberi dalla diplomazia, ha permesso di poter capire davvero i nodi e di farli emergere con pace, rispetto, armonia. Questo è stato il «metodo sinodale» che resta tutto da studiare, da capire: la sua radice è spirituale, non tecnica. La polarizzazione, in definitiva, è figlia di un pensiero tecnico on/off che considera superflue le motivazioni di ciò che accade, e annulla la dialettica che serve per provare ad affrontare le radici dei problemi. Il Sinodo è una sfida politica aperta alla visione manageriale della società che ha ridotto il consenso a tecnica di potere. Mentre stiamo perdendo l’orizzonte della trascendenza, fondamento dei valori che contano, oggi questa esperienza sinodale si rivela una profezia.

E così siamo andati avanti. La vera lotta è stata contro il terrorismo teologico alimentato prima e durante il Sinodo da milizie che hanno paventato minacce alla dottrina, alla tradizione, alla sopravvivenza stessa della Chiesa: una vera strategia delle tensione. Nel leggere il Documento di sintesi finale una cosa è apparsa chiara: la sua approvazione ad amplissima maggioranza. La gestione del conflitto è stata motivata dal volere andare avanti insieme, uniti, pur con tutte le differenze culturali possibili, senza usare la strategia dello struzzo davanti a temi polarizzanti come la poligamia o l’identità di genere e l’orientamento sessuale o davanti al tema del ruolo della donna nella Chiesa. Ben più che «nazioni unite», dunque. L’immagine della Chiesa emersa è quella di un transatlantico che solca il mare in tempesta. O, meglio ancora, quella di una rompighiaccio che è capace di non arenarsi davanti agli iceberg.

E così il Sinodo è diventato cassa di risonanza del mondo con le sue melodie e la sua eco di piombo. Il dramma e la speranza hanno percorso i tavoli ricomponendo il puzzle dei pezzi della attuale guerra. Forse la Chiesa, con la sua tradizione che si aggiorna, può aiutare a trovare le parole per poter articolare un ordine mondiale? Ci aiuterà a salvarci dall’afasia della rabbia e del pianto? Ci pensavo ascoltando nella messa finale la preghiera per i governanti risuonare a San Pietro in lingua araba, e quella per i migranti in cinese.

E, infine, il mio sguardo sull’Aula sinodale si è posato sui volti: c’erano tra noi uomini e donne, certo, ma anche anziani e giovani. E i tavoli hanno realizzato una combinatoria rara, unica anche per il fatto che erano commensali cardinali e ventenni, calze viola o porpora dentro scarpe nere lucide e sneakers su calzini corti. E mi ha colpito che i giovani avessero la pazienza di ascoltare i loro autorevoli vicini, e che i prelati fossero tutto orecchi ad ascoltare posizioni e proposte dei ragazzi. E tutti avessero diritto di voto, oltre che di parola. Questo ha realizzato uno scambio biologico di universi paralleli, una utopia. Forse a questo è chiamata oggi ad essere veramente la Chiesa cattolica sinodale: custode del fuoco di una utopia che sembra smarrita, sepolta dalla polvere da sparo o dalla muffa.


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