Il 15 ottobre del 1923 nasceva Italo Calvino. Duccio Chiarini realizza un documentario di rara leggerezza per raccontare la vita e la letteratura di uno dei più grandi autori italiani attraverso il filo rosso di un romanzo fondamentale nella produzione di Calvino: un libro senza tempo qual è Il barone rampante, uscito nel 1957. Lo stesso anno Italo Calvino, dopo aver visto le immagini tragiche dei carrarmati russi a reprimere violentemente la pacifica insurrezione di Budapest, restituisce la tessera del PCI. Questo documentario adopera Il barone rampante come un prisma attraverso cui ricostruire il rapporto tra l’opera dell’autore e i contesti storici, politici, sociali, personali che ha percorso.
Il lavoro di Chiarini si avvale di importanti filmini inediti della famiglia Calvino, ritrovati nella Biblioteca Nazionale di Roma, ma anche di repertori, testimonianze, interviste scelti con estrema cura. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, nelle Giornate degli Autori, e trasmesso su Rai Uno nel giorno del centenario dalla nascita di Calvino, il documentario è una rara testimonianza d’amore verso uno tra i più visionari scrittori mai nati, tanto immerso nel proprio mondo e nel proprio tempo, quanto capace di raccontarlo costruendo mondi e tempi che ne facciano da specchi.
Il film è prodotto da Riccardo Brun, Paolo Rossetti, Francesco Siciliano per Panama Film, in collaborazione con RAI Documentari ARTE’ G.E.I.E, Les films d’Ici, Luce Cinecittà e Fondazione Home Movies, Archivio Nazionale del Film di Famiglia. Si avvale di un’ intervista alla figlia di Calvino, Giovanna, e di interventi di studiosi e artisti quali Ariane Ascaride, Walter Barberis, Mario Barenghi, Silvia Bencivelli Stefano Bollani, Merve Emre, Marie Fabre, Ernesto Ferrero, Marco Macchi, Letizia Modena, Martin Rueff, Paolo Virzì.
Parliamo di Italo Calvino, lo scrittore sugli alberi con il regista Duccio Chiarini.
Perché ha accettato di realizzare un documentario su Calvino?
Questo film nasce da una bella coincidenza. Avevo appena terminato una felice collaborazione con la Casa di Produzione Panama Film e i produttori mi dissero che stavano preparando un film sul centenario di Italo Calvino e mi chiesero se mi interesse farlo. Fui immediatamente entusiasta della proposta. Dunque nasce da quelle strane casualità che un lavoro come il nostro regala. La Rai aveva idee precise su come fare il documentario e voleva produrlo con ARTE’. Insomma, le scelte di preparazione sono state chiare sin da subito. Meno chiara si è rivelata la direzione artistica da far prendere al film: per me, per tutti, Italo Calvino è un mostro sacro. Come si fa a organizzare la ricostruzione della vita di un personaggio così complesso? L’entusiasmo non basta, quindi mi sono messo immediatamente al lavoro e un primo, fondamentale aiuto mi è stato dato, tra gli altri, da un amico della famiglia Calvino, Luca Mareghetti. Con lui ho approfondito aspetti personali e letture particolari che non conoscevo. Ho avuto poi un importante aiuto da due ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, Giulio Giancamerla e Francesca Rubini. Da non letterato mi sembrava di scivolare su di un pavimento di cristalli e scricchiolava tutto sotto i miei piedi. Ho studiato moltissimo e da tante sollecitazioni ho intuito la chiave di partenza: Il barone rampante. Un grande romanzo della letteratura italiana, che fa parte di una trilogia splendida, era però anche lo specchio di un avvenimento tra i più tragici della storia di quegli anni: l’entrata dei carri armati russi a Budapest con la violentissima soppressione delle pacifiche rivolte ungheresi contro il regime. A questo, si accompagnava la profonda crisi di molti intellettuali del PCI e la fuoriuscita di tanti dal più grande partito comunista dell’Occidente. Anche Calvino fuoriuscì in quel momento dal partito al quale era iscritto dal 1944. Come poi ho constatato con gli studiosi interpellati nel documentario, era questo il filo conduttore per raccontare la storia di un personaggio così pieno di sfumature e grandezze che è stato Calvino. Un altro momento fondamentale per la costruzione del film è stato il ritrovamento dei filmini della famiglia a partire dal 1926: andavano recuperati, analizzati, valorizzati.
D’altra parte, la data di celebrazione del centenario dalla nascita di Calvino ha fatto sì che il lavoro di costruzione del documentario prendesse una strada piuttosto veloce e dal gennaio 2023 ho cominciato a scalettare il documentario, con la lista delle interviste che intendevo fare e dei luoghi da mostrare e sono quindi iniziati i viaggi per le riprese, un vero on the road perché abbiamo viaggiato tra i luoghi chiave dell’esistenza di Italo Calvino: San Remo, Torino, Parigi, Roma e New York.
C’è una mitologia che ricorre nelle chiacchiere facili su Calvino: il fatto che sia nato a Cuba. Personalmente, credo che quel posto non contribuisca a conoscere meglio Calvino. Mi spiego: Cuba è un luogo chiave per i genitori di Calvino e per il lascito importante che la loro esperienza cubana ha su di lui. Mario Calvino ed Eva Mameli, i genitori di Italo, lui agronomo lei botanica, hanno vissuto profondamente l’esperienza di Cuba. Per Italo, a mio avviso, il luogo in cui è nato è piuttosto accidentale, tanto è vero che poco dopo la sua nascita fu proposto al padre di tornare in Italia, a San Remo, per aprire una stazione floreale di una certa rilevanza. È pur vero che nel 1964 Calvino decide di celebrare il suo matrimonio con la moglie Chichita (Esther Judth Singer) esattamente a Cuba, ma anche questo credo sia un fatto non così centrale per comprendere la sua personalità, i luoghi per me importanti erano altri: Sanremo, Torino, Parigi.
Un elemento indispensabile per la costruzione del documentario, come ho accennato, sono i filmini di famiglia inediti, rinvenuti nella Sala Italo Calvino della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Quelle bobine risalgono agli anni ’20 e hanno rappresentato uno snodo centrale nella costruzione del documentario. Le diciture sugli scatoloni riportavano i nomi di Italo e di suo fratello minore, Floriano: “Italo e Floriano, Villa Meridiana, 1926” c’era scritto. L’operazione di recupero è stata fatta grazie all’intervento di Home Movies: ho portato in treno a Bologna una valigia in cui erano custoditi e mi sono assunto la responsabilità del trasporto. Negli archivi di Home Movies sono stati restaurati e digitalizzati. Abbiamo così potuto vedere immagini straordinarie. In generale perché sono rarissimi i filmini di famiglia girati negli anni ’20, in particolare perché rivelano i primi passi di Italo Calvino in quell’enorme e meraviglioso giardino botanico diretto dai genitori, Villa Meridiana a Sanremo, che diventerà il luogo mitologico dell’infanzia e della prima giovinezza di Italo fino agli anni della guerra.
Come avete selezionato questi documenti di famiglia tanto importanti?
Erano 7-8 bobine, in alcune parti rovinate, graffiate. Abbiamo rinunciato alle parti più corrose dal tempo e abbiamo usato tutto ciò che abbiamo potuto: le immagini dei genitori, dei nonni, la nascita del fratellino Floriano con un piccolissimo Italo che gli sta accanto…
Come ha selezionato la grande quantità di informazioni video, audio e scritte che, in generale, aveva a disposizione?
Dopo aver visto tanto materiale su Calvino, un sogno sarebbe stato quello di fare un documentario solo con le parole di Calvino, con le sue interviste, le dichiarazioni, i dibatti ai quali ha partecipato sempre. Noi partivamo da una ricerca fatta dal Laboratorio Calvino che ci aveva messo a disposizione una vasta scelta di interventi dello scrittore. Abbiamo fatto una grande fatica per selezionare le testimonianze che ci sembravano essere più forti, più efficaci, più dense, anche istintivamente. Una in particolare, che non apparteneva né agli archivi italiani né a quelli francesi, mi riguarda per una coincidenza sorprendente: è un’intervista rilasciata da Calvino all’RSI (La Radiotelevisione svizzera che dal 1931 custodisce e mette a disposizione più di 500.000 ore tra documentari video e audio, un milione di articoli e 250.000 fotografie ndr.) degli anni ’70 che io avevo già utilizzato per un mio film di finzione, L’Ospite (2018), che racconta la storia di un ricercatore universitario impegnato in uno studio sul Signor Palomar (protagonista del romanzo di Calvino Palomar,1983). In questa intervista, che ho inserito nel documentario, Calvino parla in modo straordinario della sua difficoltà di stare davanti alla “telepresa”, come la chiama. Ecco, questo è solo un esempio buffo.
Un’altra testimonianza che ci è parsa indispensabile è un’intervista di un Calvino giovanissimo, fatta per la televisione francese alla fine degli anni ’50, dove appare estremamente introverso, quasi goffo e parla del Barone Rampante. Siamo stati particolarmente attenti nel voler sottolineare come il suo pensiero, abbozzato da giovane, intriso di timidezza, si fa sempre più preciso, deciso, con pensieri lucidissimi fino alle ultime interviste: sono testimonianze complesse, con pause di riflessione estese tra un ragionamento e l’altro e con impennate di argomentazioni che si succedono rapidamente. Abbiamo cioè rintracciato una “cifra d’autore” anche nel suo modo di raccontarsi in pubblico.
Per quanto riguarda le immagini di archivio e gli inserti abbiamo fatto un attento lavoro con la montatrice, Maria Fantastica Valmori, e abbiamo rintracciato dei temi chiave anche con la ricercatrice Valentina Savi. Avevamo diversi archivi e fonti di riferimento e abbiamo scelto repertori che ci sono sembrati preziosi. Ne citerei qualcuno: uno è un intervento politico, con Calvino che parla durante una riunione di partito. Un altro reperto dell’Archivio del Cinema industriale di Ivrea è molto interessante: il Premio letterario San Benedetto con un Calvino davvero molto giovane che ritira il premio per Il sentiero dei nidi di ragno (1947); un ultimo frammento interessante è stato girato al Premio Formentor dove Italo Calvino ed Elio Vittorini si divertono a fare la telecronaca della premiazione.
Parliamo ora delle interviste fatte agli studiosi di Calvino, ai suoi collaboratori in Einaudi, al perché ha scelto di intervistare Virzì e Bollani.
Uno dei grandi temi che ruotano attorno a Calvino verte su quanto sia stato corteggiato da importanti registi cinematografici. Dopo avere riletto La speculazione edilizia (1963) per la preparazione del film, avevo notato uno stile prepotentemente cinematografica, è un romanzo visivo, racconta le cose attraverso uno schema proprio del “mettere in scena”, un po’ sullo stile di Hemingway, e “mette in scena” temi di una contemporaneità straordinaria. Ernesto Ferrero nel documentario spiega bene questo romanzo che racconta con molta efficacia il desiderio profondo di una certa intellighenzia di sinistra, in quegli anni, di comportarsi come tutti gli altri e cioè arricchirsi facendo palazzine. Quando lessi questo libro per la prima volta, d’altra parte, mi venne subito in mente il personaggio di Vittorio Gassmann in C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, il cui suocero è un palazzinaro magistralmente interpretato da Aldo Fabrizi. I protagonisti di La speculazione edilizia sono tre reduci dalla lotta partigiana e si trovano profondamente smarriti nell’Italia del boom, del benessere, senza nemici tangibili contro i quali combattere, senza ideali precisi da difendere. Questi tre protagonisti mi hanno sempre fatto pensare ai tre di C’eravamo tanto amati. Ho chiesto la testimonianza di Paolo Virzì su Calvino perché ha saputo raccontare bene la società italiana e i suoi difetti, seguendo una tradizione cinematografica che senz’altro porta con sé Ettore Scola.
Guardando le interviste di Calvino, il modo di parlare, il caratteristico cercare il tema del suo argomento mi facevano pensare molto alle improvvisazioni dei musicisti jazz. Questo è il motivo per cui ho chiesto di intervistare un grande musicista come Stefano Bollani. Inaspettatamente, Bollani si è anche rivelato un attento, preciso conoscitore di Calvino, della sua passione musicale, del suo modo di stare nelle cose.
Ernesto Ferrero era lo scrittore e il critico forse più vicino a Calvino nel lungo periodo di lavoro nell’Einaudi ed era indispensabile ascoltarlo, così come era necessario ascoltare l’attuale direttore di Einaudi (e all’epoca assistente di Giulio Einaudi) Walter Barberis e il professor Mario Barenghi, curatore assieme a Bruno Falcetto dei Meridiani Mondadori su Calvino. Ho poi voluto intervistare la professoressa Merve Emre, nome suggeritomi da Giovanna Calvino, e Marie Fabre e Letizia Modena perché hanno scritto interventi sullo scrittore che mi hanno colpito.
Nel documentario, a proposito del corteggiamento tra letteratura e cinema, si accenna al fatto che Michelangelo Antonioni abbia più volte chiesto di collaborare con Calvino, ma questo tema non viene approfondito. Ci può dire qualcosa di più preciso in merito?
Durante l’intervista a Martin Rueff ho scoperto che c’era stata una fitta corrispondenza tra i due per una collaborazione alla sceneggiatura di Blow Up (Michelangelo Antonioni, 1966). Ma sappiamo che non se ne fece nulla. In effetti, non so precisamente le motivazioni di Antonioni nel voler scrivere il film proprio con Calvino, ma credo sia difficile immaginare dei registi che non fossero interessati a lui. Basti pensare al tentativo di Fellini di collaborazione negli anni ’70, o ad altri tentativi mai realizzati. Calvino parte da immagini fortissime: è estremamente surreale e fermo nel reale, visionario e visivo, cinematografico.
Com’è stato il rapporto con Giovanna Calvino?
È una signora molto riservata ma allo stesso tempo molto disponibile, attenta nel raccontare le cose, ma anche lontana da qualsiasi esposizione, vive a New York, sa preservare la sua intimità. L’ho coinvolta molto nei percorsi che stavamo tracciando e ha condiviso con noi le foto, le lettere, i filmati che abbiamo inserito nel documentario. Ci ha anche consentito di entrare in tutti gli spazi dedicati al padre, in particolare ci ha aperto le porte del Fondo Calvino presso l’Archivio Einaudi; grazie a lei abbiamo potuto spaziare nell’ampio carteggio tra Calvino e Paolo Spriano ed è esattamente in una delle lettere tra i due che Calvino mette in luce e in connessione tra loro la disillusione politica rispetto al PCI e l’uscita di Il barone rampante.
Secondo lei come ha vissuto davvero Calvino il distacco dal PCI?
Penso che il legame tra la trilogia del Barone Rampante e l’allontanamento dal PCI esista, ma il romanzo non è certo un pamphlet sul distacco dal Partito. A mio avviso, leggendo appassionatamente Calvino, credo che un grande tema della letteratura di Calvino sia la Guerra: intesa in senso lato, ma anche la guerra partigiana in particolare che ha sconvolto un’intera generazione. Calvino scrive moltissimo: lettere, saggi, romanzi, studi e a ben leggere in moltissimi testi entra la guerra. Ricordiamo anche che si salva da una possibile fucilazione. Insomma, per me la guerra è un suo tema profondo e molto spesso sottovalutato.
Nel documentario, ci sono delle interviste nella scuola media Italo Calvino di Firenze, e sono rimasto davvero colpito dal modo in cui un bambino spiega alla perfezione la profonda ferita emotiva che lo scrittore ha riportato combattendo in guerra. Il sentiero dei nidi di ragno è un romanzo durissimo, molto doloroso. Ma anche in La speculazione edilizia l’avventura straziante eppure esaltante della guerra torna al centro del libro, attraverso la responsabilità di aver vinto e di dover fare tutto al meglio, in virtù della vittoria stessa della lotta partigiana. Dopo aver affrontato la tragedia di una guerra, la disillusione verso il PCI viene vissuta da Calvino, mi pare, in modo molto elegante, ponderato, misurato: impiega un anno prima di lasciare definitivamente il partito. Il suo modo di allontanarsi dal PCI è più una dissolvenza che un taglio netto e in questo vedo anche molto dolore, molta umanità.
Per concludere, cosa ha scoperto di Calvino girando questo documentario e cosa ha scoperto di se stesso dopo averlo concluso?
Di Calvino ho scoperto una commovente delicatezza d’animo, una commovente timidezza, una dedizione profonda al proprio lavoro e alla scrittura. E ho scoperto come il suo modo di concepire la letteratura avesse ripercussioni in tutto il suo vivere. Ho letto, per esempio, una splendida lettera a Chichita, nella quale devono decidere se fare un viaggio o meno e lui le offre varie soluzioni molto disciplinate: fa una tabella precisa con i pro e i contro di affrontare questo viaggio e le offre diverse possibilità sistematiche, che rispecchiano il suo modo di affrontare alcuni testi. Ho anche scoperto l’amore di Calvino verso la sua terra, verso la natura. In un libro postumo, una raccolta di scritti autobiografici molto belli che s’intitola La strada di San Giovanni (pubblicato nel 1990) Calvino si rimprovera di non aver conosciuto abbastanza la botanica, i nomi delle piante, di aver fatto poche passeggiate con il padre per i giardini. In realtà a me pareva che avesse un’ampia conoscenza della natura. E questo suo rimpianto lo trovo molto toccante.
Di me stesso non so dire cosa ho scoperto. Forse ho riscoperto il grande amore, mai dimenticato in realtà, verso l’esperienza culturale della Casa editrice Einaudi che parte dagli anni ’30 del ’900 come opposizione di idee alla chiusura culturale del fascismo. Poter passare una giornata con Ernesto Ferrero e Walter Barberis all’Einaudi è stato un regalo indimenticabile. Aprire i carteggi, le corrispondenze conservate negli archivi Einaudi, entrare nei meccanismi della casa editrice mi hanno riportato a un amore profondo verso il lavoro culturale e verso chi può svolgerlo.