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Per raccontare non basta la cronaca. Vale anche per i viaggi del Papa

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La direzione di Antonio Spadaro de La Civiltà Cattolica si conclude con la pubblicazione di un volume monografico  dedicato al racconto dei viaggi di papa Francesco. Si tratta della raccolta degli articoli  pubblicati in occasione dei viaggi di questo decennio di pontificato, che Spadaro ha seguito ad eccezione di quelli in Azerbaijan e Svezia, che non ha seguito perché impegnato nella Congregazione generale della Compagnia di Gesù. E’ un racconto importante, che firma insieme a molti altri gesuiti, come Diego Fares e il suo predecessore Gianpaolo Salvini e molti altri, non soltanto per quel che ci restituisce e che ne fa un importante materiale di consultazione per il tempo che verrà. E’ importante perché ci fa capire che la rivista dei gesuiti che padre Spadaro ha diretto per 12 anni ha saputo raccontare questi dieci anni di viaggi partendo da chi viaggiava e come ha viaggiato, Jorge Mario Bergoglio. Subito emerge un tratto saliente del pellegrinare di papa Francesco: “un incedere quotidiano e circolare che-si potrebbe dire- va dalla Parola ascoltata, meditata e annunciata, alla Parola incarnata dei popoli, nelle persone, nelle storie che egli desidera fortemente incontrare. Un discernere continuamente la presenza viva di Cristo nella realtà”. E’ Francesco stesso che indirizza la lettura dei suoi viaggi, un viaggiare che non amava prima di diventare papa e che poi ha capito necessario per mettersi in cammino per il mondo quale pastore universale della Chiesa di Roma. Certo, messa così, potrebbe apparire la scelta di rendere forte, efficace, anche convincente “il racconto cattolico”. Dunque  più che con l’ufficialità, fatta di numeri e tappe,  si è cercato di entrare in contatto con il viaggiatore e coloro che ha visitato, raccontandoci la sua stessa visione del mondo.

Nella presentazione del volume padre Spadaro fa emergere subito  due riferimenti inattesi, Magellano e  Matteo Ricci, il grande esploratore e un gesuita non molto amato in passato.  Basta aver letto La Carcova News, rivista popolare prodotta in una villa miseria argentina, non proprio in cima alle letture di noi vaticanisti, per capire il riferimento a Magellano:   “ Quando parlo di periferia, parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e, quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa”. E’ una spiegazione fedele, ma non “ufficiale”, della passione del papa argentino per le periferie, del suo perché. Ecco allora che il racconto sa farci capire, con onestà, fedeltà al cuore del tema trattato, ma non al trionfalismo che altrove può prevalere: “ Se allarghiamo la prospettiva ai viaggi fuori d’Europa notiamo che lo sguardo di Bergoglio è quello di Magellano. Francesco conosce come batte il cuore del mondo toccandone le estremità, i polsi, dove il sangue si sente pulsare. E scegliendo cardinali «periferici» intende rianimare la circolazione nel corpo stesso della Chiesa”. Non si tratta di sedi cardinalizie o eccentriche novità, ma di “rianimazione” davanti a nuove necessità. Ecco dunque Matteo Ricci, “ il gesuita di fine Cinquecento che si trasferì in Cina a trent’anni e che compose un grande mappamondo raffigurando i continenti e le isole fino ad allora conosciuti. Così il popolo cinese poteva vedere raffigurate in forma nuova molte terre lontane. Ricci le ha pure nominate e le ha brevemente descritte. «Ecco – ha detto Papa Francesco ai gesuiti de La Civiltà Cattolica–, con i vostri articoli anche voi siete chiamati a comporre un “mappamondo”: mostrate le scoperte recenti, date un nome ai luoghi». Lo sguardo del Pontefice si nutre quindi degli sguardi periferici di Magellano e Ricci. Lo sguardo dell’estremo Oriente e dell’estremo Occidente”. Bisogna entrare, conoscere, capire il viaggiatore per raccontarlo così e aiutarci a capire, conoscere, nel nostro possibile entrare nel viaggio del viaggiatore.

La questione diviene bruciante quando si arriva ai suoi comportamenti, non tutti ovviamente, ma quelli decisivi sì. Per esempio quel suo non raro fermarsi a toccare, non di rado in silenzio. Qui il racconto di Spadaro fa entrare come voce che spiega quella di un musulmano, il presidente del centro culturale islamico di Buenos Aires, Omar Abboud, che insieme al rabbino Abraham Skorka è stato nella delegazione pontificia quando il papa andò a Gerusalemme. In quel caso il papa si fermò a toccare il muro di separazione. E molti a chiedere perché. La risposta che Spadaro cita la diede non l’ufficio liturgico, ma l’imam, e chiarisce che chiarì il gesto anche a lui:  “ Il significato mi fu poi chiarito dall’amico Omar Abboud, musulmano: «Cosa faceva Gesù imponendo le mani? Toccava i malati per guarirli. Ecco, Francesco fa lo stesso: tocca i muri per risanarli». Il Papa, in particolar modo con i suoi viaggi, tocca fisicamente i muri perché sa che i muri sono ferite e li vuole guarire. Così avvenne anche, simbolicamente, in Corea. Durante la visita in quel Paese, Bergoglio non parlò di Corea del Nord e di Corea del Sud, ma si rivolse sempre a un Paese unito dalla lingua madre. Alla frontiera tra un popolo diviso toccò invisibilmente quella ferita aperta. Lo stesso successe a Sarajevo, dove i muri sono ancora segnati dalle pallottole. Bergoglio visitò la capitale della Bosnia e non Mostar, dove c’è una comunità di cattolici più nutrita. Qualcuno disse che aveva sbagliato, che era stato consigliato male, ma il Papa non va semplicemente dove ci sono i cattolici, il Papa va dove c’è una ferita aperta, perché vuole appoggiare la mano di Cristo su quella ferita. Per questo scelse per il suo primo viaggio Lampedusa, per questo andò a Lesbo, anch’essa tragica porta d’Europa a causa della tragedia dei migranti”. La spiegazione di Abboud riletta da Spadaro ci porta a scelte che un racconto conformista non può spiegare, perché non lo riguardano. La scelta di andare da tutti, non solo dai cattolici in Bosnia, è stata anche la scelta compita in Iraq, dove il papa è andato anche a Najaf, città santa degli sciiti, per incontrarvi l’ayatollah al-Sistani, certamente, ma consapevole che così avrebbe incontrato ogni sciita. Non andava “soltanto” dai cristiani, anche se certamente andava anche da loro e da tutte le loro orribili sofferenze, senza dimenticare o rimuovere le altre. Dunque per Spadaro abbiamo una visione estrema, come quella di Magellano e Ricci, e terapeutica. Un punto che va spiegato, perché è chiaramente la percezione dell’autore di questo racconto.

Presentando il suo racconto di tanti racconti (i viaggi per me sono raconti del mondo), chi racconta in sede di presentazione interviene infatti con la sua memoria: “ La visione «estrema» per Francesco si abbina a una dimensione terapeutica. Subito penso alle Filippine, quando è voluto stare sotto una pioggia violenta con la gente di Tacloban, nell’epicentro del tifone che aveva devastato case e vite. Ricordo, e ancora un po’ tremo, la sua presenza «miracolosa» nel cuore di una Bangui in piena guerra o in una Mosul distrutta, insidiosa e blindata. Mi passano ancora dinanzi i volti dei rifugiati incontrati nel campo profughi di Lesbo, insieme ai fratelli ortodossi Bartolomeo e Hieronymos. Non sarà facile dimenticare l’immagine del Pontefice che attraversa in solitudine e senza parole l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. Era il 29 luglio 2016. Su una vettura elettrica si avviò al Blocco 11, dove, davanti a un muro, i nazisti compivano le fucilazioni. Bergoglio salutò lì 12 superstiti, tra i quali Helena Dunicsz di 101 anni, che era stata violinista dell’orchestra del campo, e poi si diresse al muro. Francesco rimase a lungo in preghiera silenziosa, toccando i mattoni con la mano e rimanendo con il capo chino, prima di accendere una candela ricevuta da uno dei sopravvissuti. Non disse nulla. Io ero lì, ad Auschwitz, e quel silenzio mi impressionò. Bergoglio è stato finalmente libero, il primo Papa libero di non dire nulla davanti alla tragedia”.

Il discorso procede, profondo ed a volte anche audace, come quando Spadaro racconta il ritorno inatteso, col papa, a Cuba, questa volta non per visitare l’isola, ma per incontrare il patriarca della chiesa ortodossa russa. Arcigna, tetragona, con pezzi importanti che si ritengono la Terza Roma ( dopo Roma stessa e Costantinopoli, la prima caduta in mano ai barbari, la seconda in mano ai musulmani) e quindi restia al dialogo con le altre Chiese. Un fatto la cui portata forse oggi possiamo capire, ma che allora, pur non avendo precedenti nella storia, non si capì appieno. Lì si firmò la dichiarazione congiunta. Che Spadaro commenta così:  “ In quell’occasione credo che il Papa avrebbe quasi potuto firmare qualunque dichiarazione. I pezzi di carta sono pezzi di carta, non facciamone un’esegesi eccessiva, ma ciò che contava era l’esperienza dell’incontro, è quello che cambia la vita, come nella fede è l’incontro con Cristo, così tra gli uomini non sono le carte firmate e bollate, ma gli sguardi, le mani e gli occhi”. Credo ogni persona avveduta sapesse che le cose stessero così. Ma non tutti l’hanno scritto, ancor meno nell’ufficialità. Ci sono altri comuni  che ricorrono nei suoi viaggi e che l’autore cattolico che racconta un racconto che entra nei fatti, non soltanto nel suo volto ufficiale, sottolinea subito: Ci sono altri tratti comuni che ricorrono nei suoi viaggi: il suo scegliere come meta di pellegrinaggio le cosiddette chiese dello «zero virgola», ossia quelle comunità cristiane che appaiono poco significative, e che per lui oggi sono invece il sale della Chiesa, le sentinelle del suo futuro; l’attenzione alle culture native e ai movimenti  popolari, che ha dimostrato anche usando di frequente nei suoi discorsi citazioni dalla letteratura e dalla sapienza popolare locale; l’insistenza sull’ecumenismo quotidiano e pratico della preghiera e della testimonianza cristiana comune, dell’impegno congiunto per i poveri, i rifugiati, gli scartati del mondo, nutrito dall’«ecumenismo del sangue» dei martiri, cristiani senza distinzioni; il suo costante desiderio di dialogo interreligioso e di fratellanza aldilà delle differenze, suggellato ad Abu Dhabi; la sua fermezza sui capisaldi del Vangelo di fronte a istituzioni e governanti, anche nelle situazioni più complesse e problematiche, ma sempre pensando che «mai nessuno è perduto».”

Ora spero che questo racconto non si interrompa prima che l’oggetto del suo racconto, i viaggi di Francesco, si esaurisca.


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