In questo nostro Paese, invece, don Puglisi deve essere l’esempio per tutti: cittadini, giovani ed educatori. Perche’ Don Puglisi e’ stato il modello di una battaglia condotta ogni giorno, sul territorio, nelle parrocchie, contro la mafia con le parole chiare e gli atteggiamenti di ogni giorno che indicano la distanza tra la Cittadinanza , i diritti ed i doveri delle persone, la loro dignità’ da un lato: dall’altro la violenza ,le vie torbide dell’arricchimento illegale ,la sub cultura dei rapporti individuali inquinati da interessi egoistici e dalla sopraffazione mafiosa.
Uno spartiacque che va ricordato, soprattutto oggi, in questi tempi difficili, dove c’e’ disorientamento ,difficoltà’ a trovare nuovi e vecchi punti di riferimento.
Per questo e’ importante che nel primo giorno di scuola di molte regioni italiane e soprattutto a Palermo,don Puglisi sia ricordato rilanciando la sua figura. Ma e’ altrettanto importante che non ci siano solo celebrazioni, ma esempi quotidiani, tra i cittadini e nelle istituzioni, nella lotta alle mafie ed alle corruzioni partendo dai fatti e dalle leggi nazionali. Impegni realizzati,non solo celebrazioni.
Noi lo ricordiamo cosi: don Puglisi,fu ucciso per aver invaso, con il suo impegno, un territorio nemico, in una regione, ufficialmente, in pace. Questa è la storia di Don Pino Puglisi, il prete che a Brancaccio tutti ricordano ancora con il soprannome di 3P, il sacerdote che aveva “rubato” i giovani a Cosa nostra, li aveva tolti da quei vicoli confine indecifrabile fra una storia di vita e una di morte. Don Puglisi aveva messo le sue “grandi” orecchie al servizio dei ragazzi di Brancaccio e degli ultimi, nella quotidiana lotta contro i boss in quel quartiere alle porte di Palermo, dove la mafia comandava e reclutava soprattutto i giovani, rubandogli il futuro e molto spesso la vita.
Ad interrompere la missione di Don Pino, proprio nel giorno del suo 56esimo compleanno, un commando di fuoco (mandanti i capimafia Filippo e Giuseppe Graviano, finiti in manette nel gennaio del 1994) che eseguì, il 15 settembre del 1993 la sentenza emessa da Cosa nostra ,ed oggi sappiamo di Riina, proprio in quella Brancaccio dove lo Stato arrivava lentamente e di rado. Troppo di rado.
“Lui l’ aveva innanzitutto vissuto come territorio, come persone chiamate a condividere uno spazio, dei tempi e dei luoghi di vita – disse Don Ciotti nel primo anniversario della sua morte – per partecipare alla vita di chi gli era vicino ha accettato di percorrere e ripercorrere le strade del rione Brancaccio. Ha vissuto la strada – quella strada che Gesù ha fatto sua – come luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi, di relazioni e di domande in continua trasformazione. L’ha abitata così e ha tentato, a ogni costo, di restarvi fedele”.
Un prete capace di vedere la Brancaccio possibile e creare le basi per quel cambiamento che oggi a Palermo è sempre in bilico tra il rischio di tornare indietro e la possibilità’ di fare quel salto definitivo verso la liberazione materiale e culturale dalla mafia. Brancaccio ora sembra sospesa verso questo cambiamento possibile e di quel parroco “speciale” – ricordava poco tempo fa Umberto di Maggio, cresciuto a Brancaccio e oggi responsabile di Libera in Sicilia – “è’ rimasto il grande esempio di umiltà e determinazione. E’ rimasta la voglia di cambiare che ha “aperto le menti” di quanti, a Brancaccio, credevano che gattopardescamente tutto doveva rimanere identico, perennemente immutabile. E’ rimasta la sua ferma e decisa volontà a creare attraverso la giustizia sociale le giuste condizioni di libertà sociale per tutti. E’ rimasta quella sfrontata testardaggine da “Parrinu” che ha alzato la testa contro i poteri mafiosi e che ha indicato ai giovani del quartiere la via per l’emancipazione e la libertà dalla mafia”.