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Difenderli, prima di ucciderli

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Il lavoro continua a fare strage. Ogni giorno. La strage di Brandizzo non lascia dubbi sulla principale piaga del lavoro nel nostro paese, per la quale non si riesce a dare una risposta netta, decisa, risolutiva.
Abbiamo da molti, troppi, anni la media di un morto ogni otto ore, di un ferito ogni minuto. E a questi numeri dobbiamo aggiungere quelli che non vengono inseriti nella statistica dell’Inail perché sono assicurati con altri enti o non lo sono proprio. Numeri superiori a qualsiasi strage, omicidio, attentato della criminalità organizzata, a fronte dei quali chi meno ne sa replica con l’insulsa affermazione che ci vuole una “cultura della sicurezza”. Locuzione che vuol dire tutto e nulla, elude un’analisi vera delle cause di una strage permanente, rilancia verso l’alto una soluzione perché non si ha idea di cosa fare concretamente.
In questo paese, innanzi tutto, il lavoro uccide e ferisce perché il profitto prevale sulla salute. E’ ancora molto diffusa la scelta di risparmiare sulla sicurezza, per abbassare il costo del lavoro, e così produrre a minor costo e fare concorrenza sleale sul mercato. Scelta miope perché l’insicurezza costa molto di più di quanto si risparmi. Si pensi al costo una cintura di sicurezza per un operaio edile che cade da un ponteggio rispetto al costo umano, psicologico ed economico dovuto ad un incidente sul lavoro: danni relazionali e sociali, risarcimento danni, spese legali, costi processuali.
E a questo bisogna aggiungere che gli infortuni sul lavoro pesano fino al 6% del pil gravando sulla spesa pubblica le cure, gli indennizzi, le indagini, le ispezioni, i processi. Ciò che risparmia un’impresa lo paghiamo tutti noi, e molto di più.
Questa analisi macroeconomica manca alla politica che continua a parlare di morti sul lavoro come di una fatalità e di un’occasione per modificare norme e dare incentivi. La ministra Calderone a novembre 2022, davanti al Capo dello Stato, e poi il 12 gennaio 2023 in un ennesimo tavolo sulla sicurezza con parti sociali ed enti, annunciava una riforma del testo unico sulla sicurezza del lavoro nonché l’idea di sopprimere l’Ispettorato nazionale del lavoro e assorbirlo nel suo Ministero. Idea spiegata ai quattro venti per mesi, inserita in varie bozze del decreto lavoro, fino a quando il sottosegretario Durigon in parlamento, e una nota ufficiale dell’ufficio legislativo di via Veneto, la definivano letteralmente soltanto “un’iniziativa giornalistica”, cioè un’invenzione dei media; nelle stesse ore la stessa Calderone rilasciava un’intervista all’Ansa in cui parlava di ripensamento, quindi riconoscendo la bozza rivendicata politicamente ma smentendo il suo stesso ufficio legislativo e il suo sottosegretario. A distanza di sei mesi nel decreto lavoro è apparso un solo articolo con norme correttive o di mero adeguamento alla giurisprudenza. Un giro a vuoto. E comunque, prima di modificare le norme, al grido di “semplificazione”, bisognerebbe attuare quelle che sono in vigore da 15 anni: si attendono ancora dal ministro del lavoro ben 23 decreti ministeriali di attuazione.
Per attuare le norme occorrono anche ispettori delle ASL che fanno capo alle Regioni, alcune virtuose, altre latitanti da anni. In un sistema sanitario che dicesi nazionale ma articolato in venti politiche regionali diverse, dal 1978, si è creato un sistema di prevenzione diversificato da regione a regione, e questo ha generato una disparità di trattamento a seconda del numero di ispettori, dell’organizzazione della vigilanza, delle strategie ispettive, delle politiche assessoriali di turno. Il risultato è una palese violazione del principio di uguaglianza. Oggi un muratore di Reggio Calabria non ha la stessa tutela di un collega di Treviso o di Como.
Responsabilità della politica nazionale e regionale ma non solo.
Gli infortuni sono in aumento, si diffondono in tutti i settori dell’economia, anche nella p.a. Sebbne le aziende serie continuano a investire in sicurezza. Ma gran parte degli infortuni si verificano nelle PMI, il 90 % del tessuto economico italiano, dove non v’è sindacato, né statuto dei lavoratori. Le associazioni di categoria al riguardo dovrebbero giocare un ruolo fondamentale. Si aggiunga la liberalizzazione dei subappalti prevista dal Codice Salvini che spesso significa scaricare verso il basso i costi della sicurezza che inevitabilmente finiscono per essere aggirati con lavoratori in nero o con l’elusione sistematica della sicurezza. Soprattutto le PMI riescono a stare sul mercato dei subappalti di lavori edili, di fornitura, di servizi solo comprimendo i costi della sicurezza sulla pelle dei lavoratori.
Determinante nell’analisi degli infortuni è il lavoro nero. Non solo caporalato, sfruttamento in agricoltura, edilizia, logistica, ma anche servizi alla persona, lavori a domicilio: ampie fasce di lavoratori privi di tutela, assoggettati al ricatto occupazionale cui viene negato il diritto di chiedere la sicurezza minima.
L’illegalità del lavoro ruota attorno anche al lavoro grigio, un’apparente regolarità per poche ore o la dipendenza da cooperative fittizie che possibilmente dichiarano lo stato di crisi e così vanno al di sotto della soglia contrattuale. Un sistema ideato e realizzato per evadere gli obblighi contributivi, assicurativi, sociali, grazie ai colletti bianchi, non certo da piccoli coltivatori diretti o impresari edili.
Dobbiamo difendere questi lavoratori, prima di ucciderli.


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