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La lingua che dà forma ai pensieri. “Il custode delle parole” di Gioacchino Criaco

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La montagna madre, Mana Gi, che incombe con tutta la sua lucente bellezza sul territorio calabrese, è la muta protagonista del romanzo di Gioacchino Criaco Il custode delle parole, Feltrinelli editore, e si fa monito per chi la vive, perché bisogna guardare in alto per scorgere i propri sogni, sollevare la testa per vedere la bellezza che aleggia intorno a noi, voltarsi indietro nel tempo per capire chi sono stati quelli che hanno percorso il nostro cammino e seguirne le orme per non disperdere il patrimonio di cultura e conoscenza che hanno lasciato in eredità.
Criaco sceglie di ambientare la sua storia in Aspromonte, luogo già presente nella sua narrativa, che ha visto intere comunità allontanarsi alla ricerca delle più comode e moderne località costiere mentre le sue pendici venivano piagate da speculazioni ambientali che ne hanno alterato i secolari equilibri, e fa di un vecchio pastore il nume tutelare di quel mondo che stenta a mantenere la propria identità. Nonno Andrìa custodisce con devota ostinazione una lingua, il grecanico, che cuce il presente al suo passato, che dà forma a pensieri che non potrebbero essere espressi in altro modo, perché “se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto” anche se non se ne accorge. Il vecchio pastore deve lottare per far giungere quelle parole e quel messaggio di resistenza alle orecchie sorde del nipote che porta il suo nome, ma infine riuscirà ad innestare nelle nuove generazioni, sempre più tentate dall’emigrazione, quella linfa vitale in grado di avviare un movimento a ritroso di gestazione, rinascita e riappropriazione. Che lo faccia con mezzi non sempre leciti poco importa, perché certi mostri non si possono combattere con armi troppo spuntate, che indirizzi e manovri le azioni del nipote per raggiungere il suo obbiettivo significa semplicemente che sente di essere nel giusto e che uno scossone talvolta è necessario per aprire gli occhi di chi si incaponisce a non vedere.
Andrìa e Caterina, giovani adulti che non hanno ancora ben chiaro cosa fare da grandi, rappresentano la svilita categoria dei lavoratori sottopagati dei call center, in bilico tra il desiderio di partire in cerca di soluzioni migliori e la voglia di continuare a resistere, ma sembrano possedere una marcia in più data da una visione della vita più ampia e aperta a nuove possibilità. Lambiti dalla salsedine di un mare che respira in sintonia con il loro amore, Andrìa e Caterina reagiscono in modo opposto al rude richiamo del vecchio pastore: lui vuole sottrarsi a quello che sembra il destino ineluttabile indicato dal nonno che vorrebbe farne il suo erede materiale e spirituale, lei ama quella vita a contatto stretto con la natura in cui i tempi sono dettati dai cicli vitali degli animali e delle piante e in cui la fatica diventa l’antidoto alla pigrizia che li incatena ad un futuro senza prospettive. Entrambi sono anche virtuosi spettatori, e spesso partecipi soccorritori, degli incessanti sbarchi dei migranti nel paese della cuccagna incapace di accogliere chi fugge dalla povertà e dalla morte per incappare nella morte in mare o nel nomadismo dei respinti. Il sacro dovere dell’ospitalità, come eco dei poemi omerici che si riverbera nel presente, alberga ancora nel cuore di chi è disposto ad offrire un letto, del cibo e persino un lavoro ai disperati, così nonno Andrìa accoglie nella clandestinità il giovane Ydir, nato nella notte in cui “la stella delle cinque vite faceva capolino dalla coda della costellazione dell’Aquila” e quindi predestinato alla sopravvivenza, un taciturno Ulisse che parte per combattere una guerra dalla quale vuol tornare vincitore, perché ogni migrante ha la sua Itaca nei pensieri e ad essa vuole riapprodare. Per Andrìa questo gesto è come un sasso scagliato nel fondo limaccioso della propria inerzia. Inizialmente vive Ydir (che gli somiglia in modo impressionante e poi si capirà perché) con gelosia, lo vede come un intruso che si è appropriato del suo posto e che ha attivato l’empatia di Caterina, ma infine per lui e per il suo villaggio compirà un piccolo miracolo di generosità e di altruismo. Sono i gesti compiuti gratuitamente per gli altri, sembra dirci l’autore, quelli dai quali ricavare gioia, sono le piccole oscillazioni del cuore quelle che provocano grossi smottamenti e taumaturgiche ripartenze.

Gioacchino Criaco

Il mondo di Andrìa e quello di Ydir sono destinasti ad incontrarsi in quanto facenti parte di un’unica realtà: “L’Aspromonte sa d’Oriente e d’Africa insieme, un profumo che ha intriso la carne, ed è inutile che la scuoino, il suo odore resterà per sempre, dovessero scarnificarla fino al centro del pianeta”, ciò che appare lontano e differente è in realtà vicinissimo e presente, dentro gesti, sguardi, profumi, sapori.
Gioacchino Criaco, con una lingua talvolta aspra sulla quale bisogna inerpicarsi e talvolta voluttuosa al punto da lasciarsene cullare, racconta la sua terra senza tacerne contraddizioni e affanni ma calandola nella sacralità e nel mito. Il canto delle sirene della modernità da una parte e la ricerca delle proprie radici dall’altra, seppur nel loro stridente contrasto, possono confluire in una nuova consapevolezza che non passa attraverso la rinuncia alla propria appartenenza.
Custodire caparbiamente antiche parole, come ha fatto nonno Andrìa, significa anche custodire affetti, tradizioni, identità e valori che appartengono alle viscere dell’essere umano e alle viscere della terra.
“Chi sceglie la montagna è uno che vuole vincere, non un vinto… solo dei fessi possono commiserare chi vive all’altezza delle nuvole”.

Gioacchino Criaco
Il custode delle parole
Feltrinelli editore
pp.204
17,00 €

La lingua che dà forma ai pensieri. “Il custode delle parole” di Gioacchino Criaco


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