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Edith Bruck una “memoria vivente”

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Edith Bruck è riconosciuta tra i “classici” del Novecento in Italia e nel mondo. È autrice di romanzi, racconti, poesie, traduttrice; si è dedicata al teatro e ha lavorato come direttrice e sceneggiatrice per la Rai. È impegnata a rendere testimonianza, tra i giovani e nella società civile,  sull’olocausto in quanto “sopravvissuta”.

Pochi giorni fa è stata nominata «socia onoraria» dell’Accademia Olimpica di Vicenza e, quasi in sincronia, le è stato attribuito il premio speciale Campiello alla carriera per il 2023, con la seguente motivazione:

Per la sua esemplare parabola biografica e artistica, che ne fa una testimone d’eccezione del Novecento europeo e italiano e una coraggiosa staffetta dei suoi valori nel secolo presente. Sopravvissuta alla Shoah dopo la prigionia in vari campi di concentramento nazisti, Bruck ha dedicato la vita e la scrittura a mantenere vivo il ricordo e la riflessione sulla persecuzione pianificata degli ebrei. Bruck ha attraversato i confini tra popoli e tra lingue di un’Europa prima dilaniata e poi riunita.

Edith Bruck (Edith Steinschreiber) è nata il 3 maggio 1931 a Tiszabèrcel, un piccolo villaggio vicino al fiume Tisza, in Ungheria, tra l’Ucraina e la Slovacchia. Ecco come racconta la sua nascita:

Quel giorno pioveva, mi raccontò mia madre e disse che la pioggia porta male, ma a me piace ed è sempre piaciuta. Che piovesse di quella stagione era un caso, e anche la mia nascita perché mia madre non desiderava altri figli: eravamo già in troppi in quella casetta che stava crollando sotto il peso degli anni.

Nell’aprile 1944 [«l’alba più oscura che abbia mai visto»], non ancora adolescente, è stata deportata assieme alla sua famiglia nei campi di concentramento di Auschwitz, Dachau, Christianstadt, Landsberg e Bergen-Belsen, dove ha perduto entrambi i genitori e un fratello. Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la liberazione dei campi, è ritornata per un breve periodo in Ungheria, poi in Cecoslovacchia e, successivamente, ha  raggiunto Israele dove è rimasta per tre anni, per poi decidere di raggiungere una sua sorella in Argentina. È rimasta in Sud America fino al 1954, quando ha preso la decisione di spostarsi in Italia, prima a Napoli per poi stabilirsi a Roma, dove attualmente risiede.

Dopo la liberazione da Auschwitz ha cominciato a scrivere le sue memorie, in parte perdute nei continui spostamenti da un paese all’altro. Fin da bambina amava intensamente la poesia: la leggeva e la scriveva e, come lei stessa racconta, la sera anziché recitare le preghiere recitava versi, ripetendo alla madre «Mamma voglio fare la poeta». Era una bambina ebrea molto povera ma con una forte sensibilità e un acuto spirito di osservazione [«io ero curiosa, fantasiosa da piccola, ma così fortemente attaccata alla terra e capace di vedere la realtà, da chiedermi troppo presto dove fosse l’Onnipotente»]; ha dovuto sperimentare su di sé, oltre alla povertà, il dolore, l’ingiustizia, l’emarginazione e la discriminazione nei suoi esiti estremi. Tutto il suo vissuto tragico è diventato il tema centrale della sua scrittura.

Stabilitasi definitivamente in Italia, ha ripreso i suoi progetti di scrittura e ha pubblicato il suo primo libro, Chi ti ama così (Lerici 1959; poi Marsilio 1974), un’autobiografia dedicata all’infanzia in riva al fiume Tisza o Tibisco e alla Germania dei lager: «Quando ero nei campi di concentramento e nessuno veniva a liberarmi, mi chiedevo: come può il mondo essersi dimenticato di noi?».

Su queste memorie d’infanzia prende avvio una lunga e prolifica carriera letteraria. Nella ricerca di una voce letteraria che le appartenesse e da cui si sentisse abitata, Bruck ha adottato la lingua italiana, perché – confessa – «la lingua italiana mi rende libera, per me è la salvezza». Si definisce «figlia adottiva dell’Italia» perché qui trova la serenità e incontra Nelo Risi, «l’uomo eletto tra milioni di uomini», che diventerà suo marito. Ecco come racconta il loro incontro, avvenuto a Roma il 9 dicembre 1957:

Da quel 9 dicembre il nostro destino – io figlia minore dell’oscurantismo in una povera famiglia in un villaggio ungherese, lui figlio dell’illuminismo in una famiglia borghese di Milano – si intreccia indissolubilmente.

Ha pubblicato una dozzina di romanzi e diversi libri di poesia. Gran parte della sua produzione letteraria è una scrittura tesa a ricordare, ricucire, riscrivere la propria storia per testimoniare, per raccontare obbedendo non solo all’imperativo ebraico («ricorda») ma alla promessa fatta a coloro che non sono tornati, che prima di morire le hanno raccomandato: «Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi». Attraverso le voci femminili delle sue narrazioni, Bruck continua a parlare «alla carta» perché essa «ascolta tutto».
Negli anni ’70 Bruck si è dedicata anche al teatro: la sua prima opera, Sulla porta (1971) è stata rappresentata al Piccolo Teatro di Milano e al Teatro Quirinale di Roma. È stata inoltre tra i fondatori del Teatro della Maddalena di Roma, aperto nel 1974 con Dacia Maraini, Adele Cambria, Maricla Boggio, la regista Sofia Scandurra e altre. Ha lavorato alla RAI dal 1970 al 1990 come direttrice e sceneggiatrice. Impegnata attivamente nel pubblico dibattito come testimone dell’olocausto e sul ruolo del “sopravvissuto” nella società civile, Edith Bruck ha partecipato a un breve film Testimonianza sul razzismo, andato in onda alla RAI il 4 giugno 2002.

Come poeta, Bruck ha prodotto diversi volumi tra cui Itinerario (1998), Versi vissuti (2018), Tempi (2021); ha svolto un impegnativo lavoro di traduzione poetica, traducendo in italiano i poeti ungheresi Illyés Gyula, Jòzsef Attila e Miklós Radnóti. Inoltre ha tradotto in ungherese, inglese, francese, tedesco, danese.

Edith Bruck ha saputo comunicare con semplicità la tragedia della disumanizzazione cui è stata sottoposta insieme a tante altre e tanti altri ad Auschwitz, Dakau e in altri campi, ma ha raccontato anche quelle rare ‘luci’ che mostravano la presenza di bagliori di umanità tra gli aguzzini. I «punti luce» che di recente Papa Francesco ha voluto ricordare con lei, durante la visita alla sua casa romana, per evidenziare i segni di umanità, i piccoli gesti di «bontà umana» che anche nella peggiore delle barbarie e della disumanizzazione le aveva permesso di non perdere la speranza: «erano loro a rappresentare la speranza, la volontà di sopravvivere. Uscire da quell’inferno e poter dire che non c’era tenebra senza luce. E se questo voleva dire fede, allora ero credente».

In un libretto uscito nel 1999 dall’editore Marsilio, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Bruck riflette sulla sua funzione di «testimone», «sopravvissuta ad Auschwitz», sulla necessità e sull’«obbligo interiore» che la portava a «parlare del passato per il presente e il futuro», perché -scrive – «avevo più bisogno io di dire che loro di ascoltare». Lo fa rispondendo, a distanza, alle lettere di qualche studentessa particolarmente coinvolta dalla sua testimonianza, senza nascondersi che «chi ha Auschwitz come inquilino devastatore dentro di sé, scrivendone e parlandone non lo partorirà mai, anzi lo alimenta. Ma come scacciare, liberare il proprio corpo da quel macigno?». Nonostante la sofferenza, l’inquietudine interiore, la fatica del raccontare, c’è la consapevolezza, anzi la certezza che «la diretta testimonianza del mio vissuto sarebbe stata per loro una lezione che nessuna scuola poteva dare!».  Per questo, ogni volta, «accetto di ricominciare. Dire che sono qui per chi bussa alla mia porta, alla mia memoria, per partecipare al mio Auschwitz, sposo, mostro fedele che non ammette né separazione né divorzio né silenzio; convivente invisibile, indivisibile Dio del male. Il rovescio del vostro bene che è conforto per il mio cuore che vi dice grazie».

Da leggere e rileggere le pagine insuperabili del racconto Due stanze vuote (edito da Marsilio nel 1974 con prefazione di Primo Levi) dove la protagonista ritorna, a distanza di vent’anni, al piccolo borgo natio in Ungheria per ritrovare la casa della sua infanzia: «Amare soffrire gioire e aver paura della morte l’aveva imparato dentro quelle mura. I ricordi felici e i dolori erano legati a quel luogo; l’accaduto dopo era troppo diverso, inumano, incredibile per essere ancora vita in comune».

Una testimonianza capace di scuotere il cuore e la mente, così come il «dialogo in forma di soliloquio», scritto all’indomani della morte di Primo Levi, Lettera alla madre, dove Bruck affronta una riconciliazione difficile con la propria radice, facendo dialogare la fede religiosa della madre con la propria laicità. Una lettera rivolta direttamente alla madre («cara mamma»), destinataria irraggiungibile ma verso la quale c’è un dialogo interrotto con tante parole non dette, tanti interrogativi rimasti in sospeso: «c’è qualcosa di sospeso, forse è solo l’infinito silenzio, la lontananza mai congiungibile». Così la figlia scrive («io racconto al mondo di noi»), venuto meno il timore per le prescrizioni materne, con una modalità che diventa una autolegittimazione alla scrittura: «tua figlia più piccola che osava pensare, dubitare, riempirti di perché, come fossi tu Iddio senza risposta. È una lettera ispirata dai tuoi rimproveri per la mia lingua lunga, il mio filosofeggiare». Nel recupero memoriale della drammatica separazione dalla madre nel campo, la scrittura consente di superare il corpo a corpo della bambina adolescente abbarbicata alla propria nutrice, per distendersi in una dimensione riflessiva che la distanza temporale e la morte hanno contribuito ad approfondire. E la lettera assume via via i toni di un appello:

Ascoltami! Sei costretta. […] Questa volta devi ascoltarmi. Non puoi farmi star zitta. […] non voglio litigare con te subito, è la pace che cerco! È dal ventotto di maggio del 1944! Eppure me lo ricordo quel giorno come fosse oggi, un giorno eterno, senza tempo, racchiude tutti i tempi.

L’ultimo libro Il pane perduto (La nave di Teseo, 2021) ritorna sugli interrogativi che hanno attraversato la sua produzione letteraria, mostrando senza reticenze il dovere civile della testimonianza e la funzione terapeutica che ha avuto per lei la scrittura, fino a diventare il suo ossigeno vitale. La copertina del libro ha una foto struggente: riprende la scrittrice di profilo, con la mano destra appoggiata ad un muro diroccato, colta da un pianto disperato. È un fotogramma dal documentario ungherese del 1982 A làtogatàs (La visita) di Lázló Révèsz, che fissa un momento di commozione di Edith quando ritrova la vecchia casa dell’infanzia, come racconta in Due stanze vuote. Il titolo, molto evocativo, Il pane perduto, allude al momento in cui la madre, alzatasi all’alba per cuocere il pane, viene bloccata dall’irrompere dei gendarmi che deportano l’intera famiglia. Il pane preparato con tanto amore e desiderato dai figli affamati rimane abbandonato, perduto per sempre. Così il racconto, avviato come una favola [«Tanto tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida»], cambia registro e la voce narrante registra la brusca virata degli eventi: «il nostro villaggio ci sembrava già lontano, in un altrove. […] Quel nostro mondo era finito, un luogo da favola nel bene e nel male». Ora «il tempo reale, come la mia infanzia, era sparito e quello interiore ciascuno lo viveva solo secondo i propri sensi». È iniziato il lungo viaggio «in quel pianeta fuori dal mondo» da cui solo pochi riusciranno a tornare.

Ad Edith Bruck sono stati attribuiti numerosi premi letterari: il Premio Rapallo Carige nel 1989 per Lettera alla madre; il Premio Viareggio nel 2009 per Quanta stella c’è nel cielo; e il Premio Strega giovani nel 2021 per Il pane perduto. Ha ricevuto inoltre riconoscimenti nazionali e internazionali come testimone dell’olocausto e come scrittrice contemporanea. Nel 2018 ha ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione e Giornalismo dall’Università di RomaTre; nel 2019 l’Università di Macerata le ha attribuito la laurea honoris causa in Filologia moderna. Tra gli altri riconoscimenti ha ricevuto l’aprile 2021 il Cavalierato di Gran Croce, conferitole dal Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella.

Edith Bruck ha continuato ad esprimere con forza e determinazione ciò che le dettava la sua coscienza civile. In un’intervista a «Il Riformista», ancorandosi alla sua esperienza di sopravvissuta, ha ribadito di recente che «Nessuna guerra è giusta. E nessuna guerra è paragonabile ad un’altra guerra. Nessun disastro si rimedia con un altro disastro. Ognuno è disastro per conto suo, per ragioni diverse, per politiche diverse, interessi diversi. È molto triste ma è così». E ha aggiunto la sua contrarietà alle armi: «Perché un’arma porta ad un’altra arma. L’arma porta la morte. Si fornisca pane, si fornisca aiuto, si fornisca tutto. Tutto, meno che le armi. Il mondo è pieno di armi. Ne vogliamo ancora di più? Quando creano armi, le creano per uccidere. Vogliamo fare del mondo, come diceva mio marito Nelo Risi, un Museo delle armi? Le armi servono per aggredire, per uccidere. Io sono contro qualsiasi arma, anche un coltello».

Nell’ultimo libretto in cui racconta la visita fattale da Papa Francesco il 20 febbraio 2021, con una breve Prefazione di Papa Francesco, Edith non tace su «quell’insensato massacro indiscriminato che rischia di causare la terza guerra mondiale e comunque lascerà una eredità di odio che aumenterà il veleno del mondo» (E. Bruck, Sono Francesco, Postfazione di Noemi Di Segni, Milano, La nave di Teseo, 2022).

 

 

 


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